È stato di recente approvato in conferenza Stato-Regioni l’aggiornamento del Piano Nazionale della cronicità, la cui prima versione risale al 2016. Questa approvazione ha suscitato reazioni positive, pienamente giustificate se non fosse che viene aggiornato un Piano di fatto solo molto parzialmente operativo, un Piano che di fatto ha trovato pochissime applicazioni di sistema che coincidono con le Regioni che hanno attivato e fatto funzionare le Case della Salute prima del DM 77 del 2022 e le Case della Comunità dopo.
Notoriamente queste Regioni sono pochissime come i report di monitoraggio dell’applicazione del DM 77 da parte dell’Agenas documentano. Forse, anzi sicuramente, è andata meglio nella applicazione del modello a specifiche patologie come il diabete o a specifiche patologie in specifiche aree come le demenze.
Come noto, per cui mi limito ad un accenno, il primo Piano Nazionale della Cronicità, il DM 77 e il secondo Piano Nazionale della cronicità hanno un comune riferimento nel Chronic Care Model, che è un modello di almeno un decennio precedente rispetto a questi atti. Il Chronic Care Model prevede un approccio proattivo, interprofessionale, basato sulle evidenze, di comunità e centrato sul paziente e sul nucleo familiare e sociale. Anche su questo modello preferisco non entrare in dettagli scolastici perché chi lo pratica, o anche solo chi lo ha studiato che è il presumibile lettore di questo appunto, lo conosce a sufficienza. Basta ricordare ancora una volta che nel DM 77 ci sono tutti gli ingredienti del Chronic Care Model, anche se la ricetta l’hanno sperimentata in pochi.
Il punto che ancora una volta voglio richiamare e’ che accanto al, anzi prima del, Piano Nazionale della Cronicità c’è stato sotto mentite spoglie il Piano Nazionale della risposta ospedaliera agli eventi acuti e cioè il DM 70 del 2015. Questo Piano aveva tra i suoi principi ispiratori la razionalizzazione delle reti ospedaliere attraverso l’utilizzo di una serie di criteri che le dovevano ridisegnare e non “tagliare” come ancora si continua a scrivere e, di conseguenza, pensare. Questi criteri erano la classificazione degli ospedali in base alle attività svolte a loro volta collegate a bacini di utenza per disciplina/funzione, la costruzione di reti cliniche secondo il modello Hub and spoke a partire da quelle tempo dipendenti e la definizione di un ruolo di integrazione da parte delle strutture private.
In questo percorso (che qui ho molto semplificato) le piccole strutture ospedaliere periferiche di cui la sanità pubblica italiana era piena (e continua ad essere abbastanza piena) mantenevano una attività per acuti e quindi un ruolo nella rete dell’emergenza-urgenza solo in presenza di particolari condizioni. Insomma, il Piano di riordino delle reti ospedaliere per acuti era il primo passo per un ridisegno della offerta complessiva di servizi sanitari e socio-sanitari ad una popolazione che invecchia in presenza di incombenti vincoli economici e organizzativi (personale). Il Piano Nazionale della Cronicità, è questo il punto, può crescere a livello di sistema nelle Regioni solo contestualmente alla evoluzione dei Piani di riordino degli ospedali.
Questa banale (e mi rendo conto troppo spesso ripetuta da parte mia) considerazione trova pochissima accettazione tra i cittadini cui questa prospettiva non viene quasi mai proposta dalla politica, che non a caso dove ha razionalizzato le reti ospedaliere è riuscita a far crescere forme magari incomplete di sperimentazione e messa a regime di esperienze di Chronic Care Model. Mi risulta invece difficile da capire la “timidezza” diffusa che avvolge anche i forti sostenitori di una risposta avanzata alla cronicità quando si parla di razionalizzazione delle reti ospedaliere.
Forse dobbiamo passare dai Piani di settore (cronicità, salute mentale, demenze,ecc.) a un Piano complessivo di riorientamento del SSN in risposta ai nuovi bisogni e tenendo conto sia degli attuali e futuri vincoli che
delle possibili innovazioni sia tecnologiche che organizzative. Torno alla domanda di fondo: che senso ha fare Piani che aggiornano Piani che non hanno funzionato perché altri Piani che li condizionavano non hanno a loro volta funzionato? Peraltro va benissimo l’inserimento di nuove patologie tra quelle che il Piano Nazionale della Cronicità aggiornato prende in considerazione specificamente, ma non a caso si parla di Piano Nazionale della Cronicità e non di Piano Nazionale delle Malattie Croniche.
A scanso di equivoci ricordo infine che se i nodi strutturali alla base della crisi del Ssn non verranno risolti (sottofinanziamento, politiche del personale e divario Nord-Sud) nemmeno un Piano Nazionale “complessivo” funzionerà mai.
Claudio Maria Maffei