Dompé: “L’Italia del farmaco può vincere. Ma devono cambiare metodi e mentalità”
Manovra economica: “Se anche la sanità deve dare il suo contributo alla crisi lo deve fare nel suo insieme. Basta coi tagli unilaterali all’assistenza farmaceutica”. Spesa sanitaria: “Dobbiamo accettare il fatto che tutta la spesa per la salute è inevitabilmente destinata ad aumentare”. Federalismo e responsabilità: “È giusto che chi sbaglia paghi, come si sta dicendo anche oggi dopo i recenti provvedimenti nei confronti delle regioni in deficit. Ma è giusto che, a farlo, siano poi in prima persona i cittadini?”. Ricerca: “I grossi centri con migliaia di persone, con sinergie ridotte e ristretti ambiti di esplorazione dei fenomeni, sono archeologia”. Crisi dell’occupazione: “Indipendentemente dalla nostra volontà, la fine del lavoro a tempo indeterminato, nella stessa azienda o nello stesso ufficio per tutta la vita, è già una realtà”. Le grandi riforme: “I nostri politici, e parlo di tutti, da destra a sinistra, vogliono cambiare questo Paese ma ancora non sono riusciti a cambiare i loro stessi apparati che qualche volta hanno un’influenza superiore al loro ruolo tecnico!”. Farmacopoli? “Mai più. Ma la guardia, per una legalità etica e trasversale, non abbiamo alcuna intenzione di abbassarla”.
Questi i passaggi più salienti del nostro colloquio con il presidente di Farmindustria, che si avvia però sulle prospettive reali di un prossimo, e atteso, cambiamento delle regole per la registrazione dei farmaci più innovativi, quelli frutto della farmacogenetica.
Presidente Dompé, ora anche l’Istituto superiore di sanità sottolinea l’esigenza che le regole per la registrazione dei nuovi farmaci si adeguino alle nuove frontiere dell’innovazione farmaceutica, pensando soprattutto alla farmacogenetica. Fu lei a sollevare la questione un anno fa in una nostra precedente conversazione. Allora ci siamo?
Sì. Del resto è un processo ineludibile. Ha ragione, fu proprio un anno fa che, in riferimento al nostro futuro, le dissi “o si cambia o si muore”. Oggi ciò è ancora più vero perché i tempi per le decisioni strategiche, macro o micro che siano, si sono ulteriormente accorciati. Quando sollecitiamo nuove regole per i trials clinici e per le conseguenti metodiche di valutazione del lavoro di ricerca ai fini dell’autorizzazione di nuovi farmaci, non facciamo altro che evidenziare un processo che è già in atto. La ricerca fatta in grossi centri, con migliaia di persone, poco permeabili dall’esterno, con sinergie ridotte e ristretti ambiti di esplorazione dei fenomeni, aveva ancora un senso un tempo, ma ora è archeologia.
Ma in questa corsa non si rischia di perdere qualcosa o “qualcuno”?
Dipende da tutti noi. Perché se è vero che realtà come quella dei laboratori di ricerca della Glaxo di Verona stanno vivendo momenti difficili con situazioni delicatissime per i ricercatori italiani di quell’azienda, è anche vero che in questo stesso periodo in Italia si stanno sviluppando 233 nuovi progetti biotech, dei quali 31 per farmaci orfani.
Vuol dire che, mentre la ricerca Glaxo chiude, i progetti innovativi crescono?
Di fatto sta avvenendo questo e infatti i dati indicano un trend di crescita evidente per la ricerca farmaceutica fatta in Italia. Dal 2003 al 2008 gli studi clinici sono aumentati del 47% e di ben il 69% se consideriamo solo quelli di fase I e II. Può apparire un paradosso ma è il risultato di una vera e propria rivoluzione nel “fare” ricerca che si è già affermata e sta dando i suoi primi frutti positivi anche nel nostro Paese. Nonostante un sistema di regole, tempi e modalità che rendono l’Italia meno attrattiva di altri Paesi.
Ma cosa si sente di dire ai 600 della Glaxo?
Non sono avvezzo a promesse generali quanto generiche. È evidente che ogni sforzo va nella direzione di riposizionare i ricercatori, che rappresentano un capitale per l’Italia. Ci si sta muovendo tutti, imprese e Istituzioni, in questo senso. Ma il punto è che dobbiamo credere nel futuro e anche nella Glaxo che da oltre trent’anni è una delle maggiori contributrici del nostro Paese, dalle tasse al lavoro più qualificato, dall’export alla scienza. Sono personalmente convinto che contribuiranno a costruire un futuro per il Centro Ricerche, anche se esterno al loro Gruppo.
E come?
Dobbiamo muoverci seguendo i trend più reali nel contesto mondiale della ricerca farmaceutica. Dobbiamo puntare sullo sviluppo di reti innovative anche nel metodo, non solo nell’oggetto delle nostre ricerche. E per metodo intendo quello del lavoro multidimensionale, con network di ricerca sparsi in posti e ambiti diversi ma uniti nello stesso scopo. Di “cervelli” e capacità ne abbiamo sempre bisogno, anzi più di prima, sono gli apparati che li ospitano a non essere più al passo con la multisettorialità della scienza. E poi dobbiamo riappropriarci della capacità di promuovere la cultura scientifica.
Vale a dire?
L’Italia è ormai strozzata da regole assurde nella dinamica dei congressi scientifici, e parlo dei veri congressi scientifici. Quelli dove si portano all’esame della comunità le dinamiche più innovative della ricerca e sulle quali si avvieranno i trials clinici di domani. Da noi è diventato quasi impossibile promuoverli, eppure avremmo tutte le caratteristiche per essere paese leader nell’ “Agorà” della scienza mondiale. E poi, è chiaro, serve il supporto di tutto il sistema Paese. Un supporto, non economico, sia ben chiaro, che per il settore farmaceutico manca da troppi anni e che, nonostante i successi di cui le ho appena parlato, ha comunque alimentato un trend negativo sull’occupazione e nella bilancia dei pagamenti. Certo, la crisi del 2008 ha fatto la sua parte ma i nostri sono danni che vengono da crepe strutturali del sistema, non solo dalla congiuntura che è oggi indubbiamente preoccupante.
Del resto, nell’agenda governativa, sembra essere sempre al centro il tema della spesa e del suo contenimento e oggi, con la farmaceutica territoriale sotto controllo, è la farmaceutica ospedaliera a preoccupare Governo e Regioni.
La territoriale sotto controllo…solo a spese nostre, mi verrebbe da dire! Ma andiamo avanti. È vero l’ospedaliera preoccupa e vi sono misure di contenimento percorribili come quelle necessarie per ottimizzare la gestione delle scorte nelle farmacie ospedaliere dove si buttano troppe confezioni scadute per un’errata gestione dei magazzini. Ma anche qui il punto è un altro.
E cioè?
Vogliamo o no accettare il fatto che tutta la spesa per la salute è inevitabilmente destinata ad aumentare? Lo vogliamo chiamare il prezzo da pagare per un benessere e una longevità mai prima conquistati dall’umanità? Chiamiamolo pure così ma attrezziamoci per tempo. Iniziamo a gestire l’intera catena assistenziale come un’unica sequenza di atti e prestazioni della quale va valutato unitariamente il costo, abbandonando la logica dei bilanci spezzettati dove una voce viene valutata indipendentemente dalle altre e indipendentemente dalle connessioni e dai benefici reciproci che possono derivare da una gestione unitaria del paziente. Il farmaco è una componente essenziale di questa catena del prendersi cura e qualsiasi analista attento sa che resta l’anello con il rapporto costo-beneficio migliore. Eppure, nella predisposizione dei bilanci, nella logica dei tetti settoriali, tutto questo svanisce e anziché guardare all’intero percorso assistenziale valutandone costi e appropriatezza globali, si segmenta ragionieristicamente l’analisi, perdendo di vista il risultato finale.
In ogni caso il ministro Fazio ci ha anticipato la sua intenzione di verificare la possibilità di spostare in farmacia parte dei farmaci innovativi oggi distribuiti solo in ospedale. Che ne pensa?
Se lo spostamento viene simultaneamente accompagnato da una revisione dei tetti, nessun problema. Ma è certo che se si dovesse pensare a spostare in farmacia una quota di spesa senza compensarne la copertura, si tratterebbe di una mera tassa a totale carico delle aziende. E come tale inaccettabile. Ma ripeto, il punto è superare la logica dei tetti di settore e ragionare su un budget complessivo per percorso terapeutico-assistenziale.
Sempre il ministro ha però chiesto di investire di più per mirare meglio le terapie innovative, soprattutto in campo oncologico. E questo per evitare prescrizioni troppo generiche ma difficilmente evitabili, con costi altissimi e benefici tutti da dimostrare. L’industria è pronta a fare la sua parte?
Altroché. In realtà con l’Aifa abbiamo già da tempo innovato le regole di ingaggio per i farmaci innovativi, pattuendo un percorso di verifica dell’efficacia in un tempo determinato, passato il quale il farmaco entra in prontuario solo per le indicazioni sulle quali si sono ottenuti risultati soddisfacenti. Ma attenzione a non generalizzare il concetto. Non dimentichiamo che proprio nei farmaci di ultima generazione l’assioma “una molecola-una malattia” non funziona più e se è vero che può accadere che non vi sia una generalizzata risposta terapeutica positiva, resta il fatto che alcune persone trattate, con le stesse caratteristiche del panel non rispondente, rispondono comunque positivamente. A questo punto che facciamo? Non diamo più quel farmaco, anche se a qualcuno, cui non dovrebbe, fa comunque bene?
A proposito di Aifa, un anno fa il direttore generale dell’Agenzia annunciò l’intenzione di ridurre drasticamente i tempi di lavoro per le autorizzazioni di nuovi prodotti. Mi può confermare che ciò è avvenuto?
Purtroppo no. Ma non posso farne una colpa alla direzione dell’Aifa che, nel suo direttore e nel suo presidente, ha trovato un ticket formidabile. Il potenziamento degli organici, che era il presupposto per quell’accelerazione nei processi regolatori, è andato a regime solo ora. Diciamo che l’auspicio del professor Rasi potrebbe, e me lo devo augurare fortemente, attuarsi quest’anno.
Da parte di molte associazioni di pazienti giungono proteste per crescenti difformità nell’accesso ai farmaci da una regione all’altra. Avete vostri riscontri in proposito e in ogni caso temete che la messa a regime del federalismo fiscale possa dare il via ad un inarrestabile federalismo farmaceutico?
Non temo il federalismo. Ma è chiaro che quelle difformità, giustamente denunciate dai pazienti, esistono e vanno rimosse. In tal senso riscontriamo un forte impegno del Ministro Fazio che, proprio in questi giorni, si è pronunciato per un cambio delle regole per uniformare i tempi di recepimento da parte delle regioni delle nuove autorizzazioni in commercio deliberate dall’Aifa. Tuttavia, dobbiamo riconoscere che, dietro i ritardi nell’inserimento di nuovi farmaci nei prontuari regionali, c’è molto spesso una ragione economica che porta le regioni a selezionare di fatto i nuovi ingressi. Ecco, se temo qualcosa del federalismo è proprio questo. Il rischio di un processo di selezione della domanda quale unica soluzione alla responsabilizzazione diretta e totale delle regioni sul fronte della spesa. È giusto che chi sbaglia paghi, come si sta dicendo anche oggi dopo i recenti provvedimenti nei confronti delle regioni in deficit. Ma è giusto che, a farlo, siano poi in prima persona i cittadini?
Mettere a punto un nuovo farmaco non è un’impresa da poco. Ormai sappiamo che occorrono investimenti milionari, network di ricerca consolidati, un humus istituzionale ben disposto a incentivare l’innovazione…tutte cose che in Italia, almeno negli ultimi vent’anni, sono mancate. Ma in ogni caso, pensa che non vedremo più un’azienda italiana titolare di un nuovo brevetto importante?
So di deluderla, ma penso che non ci sarà più nulla “full made in Italy”. Del resto nel nostro campo ormai il concetto di “made in” è onestamente superato. La leadership di un Paese nella ricerca farmaceutica si vede piuttosto nella quota di partecipazione che riesce a mettere in un progetto nuovo. Ecco, quello che le posso dire è che l’Italia è decisamente convinta di dover e poter incrementare quella quota nei grandi progetti innovativi, che sono ormai quasi tutti internazionali in termini di know how e risorse impiegati. Citando Claudio Cavazza sarebbe bello parlare di “ invented in Italy”.
La grande crisi economica del 2008 è tutt’altro che finita e ce lo conferma quanto accaduto in Grecia con le conseguenti misure straordinarie della Ue. A seguito di ciò si annuncia una manovra straordinaria entro maggio. Teme qualcosa per il suo comparto o per la sanità in generale?
Non temere che anche la sanità possa rientrare nella manovra sarebbe velleitario. È certo che, se così sarà, mi auguro che siano adottati provvedimenti trasversali, nella logica di razionalizzare e ottimizzare l’efficienza del sistema, e non tagli secchi unilaterali. Se anche la sanità deve dare il suo contributo alla crisi lo deve fare nel suo insieme. Questo sia chiaro.
Siamo alla vigilia dell’assemblea annuale di Farmindustria. Vuole anticiparci le linee guida che ispireranno le iniziative dell’associazione per i prossimi anni?
Il nostro obiettivo è che cresca tutto il sistema salute. Vogliamo un SSN più competitivo. Capace di guardare avanti, anticipando i nuovi bisogni, senza subirli come avviene oggi. Per farlo occorre lavorare sui fattori di sviluppo del sistema per realizzare un vero e proprio salto di paradigma del modello attuale, appesantito da una zavorra decisionale e burocratica che non possiamo più permetterci. E guardi, quando parlo di queste cose, non penso solo alla sanità. Penso in generale al modello di sviluppo che vogliamo per il nostro Paese nel suo insieme. Alle dinamiche dell’occupazione, al moloch del posto fisso a tempo indeterminato, che sta ingessando la nostra economia e sta di fatto imbalsamando il mercato del lavoro, senza riuscire ad offrire ai nostri figli quel progetto di avanzamento economico e sociale che i nostri padri hanno invece assicurato a noi cinquant’anni fa.
Basta col posto fisso?
Sarebbe facile risponderle sì. Perché indipendentemente dalla nostra volontà, la fine del lavoro a tempo indeterminato, nella stessa azienda o nello stesso ufficio per tutta la vita, è già una realtà. Il fatto è che, anziché muoversi nel nuovo, creando nuove logiche e nuovi meccanismi di ingresso, verifica, e turn over, siamo inchiodati in una lotta tra partigiani del posto fisso e fautori della flessibilità che si dipana tutta in modo ideologico, senza coraggio né inventiva.
Un obiettivo molto ambizioso. Pensa che la politica la seguirà in questa visione?
Il livello politico del nostro Paese, contrariamente a quanto si pensa comunemente, è molto più avanti di quello della nostra burocrazia. È lì la vera casa del conservatorismo italiano. I nostri politici, e parlo di tutti, da destra a sinistra, vogliono cambiare questo Paese ma ancora non sono riusciti a cambiare i loro stessi apparati che qualche volta hanno un’influenza superiore al loro ruolo tecnico!
Un’ultima questione. Di scandali in sanità, purtroppo, se ne continuano a registrare. Ma, salvo piccoli episodi marginali e molto locali, il farmaco e il suo indotto sembrano ormai fuori dalla cronaca giudiziaria. Possiamo dire che la lezione dei primi anni ’90 sia ormai definitivamente acquisita?
Se intende che ora possiamo stare tranquilli e adagiarci in questa, ovviamente positiva, situazione di tranquillità giudiziaria, la mia risposta è no. No, perché se c’è una lezione che abbiamo appreso dalla stagione degli scandali di vent’anni fa è che essa ha permesso di far luce su un fenomeno nel quale eravamo tutti coinvolti, spesso inconsapevolmente. E non vogliamo più trovarci in una situazione come quella. Al di là delle singole, e spesso poi rivelatesi inconsistenti, responsabilità. Per questo vogliamo controlli, controlli e controlli. Non abbiamo nulla da nascondere e ho l’orgoglio di dire che l’industria farmaceutica ha vinto la sua battaglia per la trasparenza. In tutti i campi. Ma la guardia, per una legalità etica e trasversale, non abbiamo alcuna intenzione di abbassarla.
18 Maggio 2010
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