Gentile Direttore,
a Napoli si apostrofa come “sporta d’ ‘o tarallaro” colui che, per motivi di lavoro viene mandato in giro con la sua cesta (sporta in napoletano), nei posti più disparati, per vendere il prelibato impasto di farina, strutto, mandorle, acqua, sale e pepe. Esiste un’altra spiegazione della locuzione. I tarallari consentivano ai clienti di servirsi loro stessi dalla “sporta” (cesta) così da scegliersi il meglio di quello che aveva da offrire.
Sono stato Medico di Medicina Generale per oltre 40 anni a Napoli (preciso perché se pur la disciplina è la stessa, dove la si pratica fa tutta la differenza del mondo). Oggi ho lasciato Il SSN, ma continuo ad esercitare il mestiere per il quale le persone di cui continuo a prendermi cura mi riconosce, quello di medico di famiglia. Una specificità di ruolo. Per questo mi prendo assai collera nel vedere i miei colleghi, soprattutto i giovani, trattati come sporta d’ ‘o tarallaro. Il medico di medicina generale lo si vuole dappertutto (ambulatorio, a domicilio, pronto soccorso, casa della salute, di comunità, ogni giorno una nuova location) a fare di tutto. Non gli si riconosce un ruolo e una competenza specifica. Si ha solo la pretesa di scegliere dalla cesta della Medicina Generale quello che serve, al momento, per tenere in vita un agonizzante servizio sanitario pubblico, nell’attesa che alla fine possa morire per consunzione tra le braccia amorevoli, efficienti, ed efficaci, per fare profitto, della sanità privata. Però …
Qualche settimana fa leggo proprio su questo giornale: “Medici di famiglia. Importante cambiamento per la medicina generale, la cui formazione da «specifica» diventa «specialistica…» ”. Non mi sono illuso, mi sono detto, da subito: “vogliono reclutare “tarallari” in camice bianco dando loro l’illusione di una equiparazione, almeno economica, con egli specialisti dell’Accademia”. Eppure, sono stato contento e, per vanagloria, ho pensato che anche io, avrei potuto firmare un articolo, una lettera o chi sa che, come medico di medicina generale e non come pensionato.
L’illusione è durata poco. Il tempo di farsi qualche conto e la Commissione bilancio del Senato boccia la proposta perché non ci stanno i soldi. Forse bastava farsi qualche conto prima e decidere di prenderli da qualche altra parte? Il tempo, però, è quello in cui non è importante fare qualcosa di utile, ma dichiararlo. Ci sarà poi sempre qualche commissione, giudice, organizzazione a cui accollare la responsabilità del fallimento.
A questo punto, chiedo alle tante anime belle che, pure su questo giornale, anelano al passaggio alla dipendenza e agli stessi politici che spingono perché questo accada: “Con quali soldi?”.
Tralascio qualsiasi ragionamento “alto”, in base al quale ritengo improponibile per un MMG il passaggio alla dipendenza e faccio un volgare elenco di costi:
1. Tredicesima, quattordicesima, liquidazione, ferie pagate, malattie pagate.
2. Straordinario, la mia media di accessi nell’ultimo anno di lavoro 2020-21 era di 75. Calcoliamo 5 minuti ad accesso (ridicolo!) abbiamo esaurito l’orario da contratto e c’è ancora da fare aggiornamento, reportistica, corrispondenza, lettura della miriade di circolari istituzionali, etc.
3. Spese di ambulatorio, luce, acqua, telefoni, hardware e software, pulizia, rifiuti speciali, assicurazioni, etc. etc.
4. Indennità di disoccupazione per il personale che collabora alla gestione dell’ambulatorio.
Se non ci sono i soldi per specializzare i MMG, dove stanno i soldi per assumerli?
Chiudo, condividendo un altro gioiello del dialetto napoletano, il termine “nciarmatore” (esiste il corrispettivo femminile che è “occhiarola”). Identifica un mestiere e un’abilità. Il mestiere, quello di guaritore, l’abilità, quella affabulatoria per truffare la gente.
Ciro Brancati
Medico di famiglia