Gentile Direttore,
all’inizio degli anni ’80 l’Italia conquistava un servizio sanitario che sarebbe stato invidiato negli anni seguenti, fondato su princìpi di universalità, equità e solidarietà. Il periodo che va dal 1978 ai primi anni ’80 ci parla, in cifre approssimative, di ciò che è stato questo sistema: 56 milioni di italiani, con un’età mediana di appena 34 anni, che hanno ricevuto un’assistenza sanitaria sul territorio sette giorni su sette, ventiquattro ore su ventiquattro, da 33 mila medici di assistenza primaria – variamente chiamati “generici”, “di base”, “mutualisti”, “condotti” – e 7 mila medici di guardia medica, sostenuti da un’ospedalità che contava 500 mila posti letto, pari a 8-9 per 1000 abitanti.
La speranza di vita alla nascita di un bambino era di 69 anni. Malattie cardiovascolari e neoplasie erano diventate la principale causa di morte, dopo la significativa riduzione della mortalità per infezioni ottenuta rispetto ai decenni precedenti: appena dieci anni addietro l’abolizione dell’ultimo focolaio di colera nel sud del paese, solo poco prima l’eradicazione della malaria, storici risultati di un’igiene pubblica cui erano state riconosciute le necessarie risorse economiche, umane e tecnologiche. Da lì alla metà degli anni ’90 sarebbero stati chiusi i manicomi.
Sono trascorsi più di quarant’anni da allora. La popolazione italiana è aumentata a 59 milioni ed è la più vecchia al mondo dopo quella del Giappone, con un’età mediana di 47 anni. La speranza di vita alla nascita di una bambina, oggi, è di 85 anni e forse, entro qualche tempo, la sua prima causa di morte sarà un tumore e non una malattia del sistema circolatorio, come già avviene in Canada e in Svezia. La chiusura dei manicomi ha fatto passare il numero degli assistiti dai servizi di salute mentale dai 76 mila ricoverati alle oltre 800 mila persone attuali. Circa 38 mila erano nel 2023 i medici di medicina generale, in calo inesorabile per un insufficiente turnover dovuto a pensionamenti prevedibili e scarsa attrattività della professione.
In dieci anni il numero di medici di medicina generale si è ridotto di quasi 8 mila persone e, per il triennio 2023-2026, sono previsti più di 11 mila pensionamenti che continueranno con trend significativo fino al 2030. I medici di continuità assistenziale sono circa 10.000 mila, una manciata in più rispetto agli anni ’80, mentre i posti letto negli ospedali sono diminuiti di almeno 300 mila unità, attestandosi attualmente tra i 180 e 190 mila, pari a 3,2 ogni 1000 abitanti: a ciò doveva corrispondere la creazione del sistema della “casa come primo luogo di cura” da tutte le componenti dell’assistenza territoriale, cosa che non è avvenuta.
Volendo tenere in considerazione l’abusato rimpianto per “i bei tempi andati” e per “i medici di una volta”, possiamo immaginare che il sistema funzionasse realmente per le esigenze della popolazione italiana del 1980, con il contingente medico a regime nel 1980. Ma sono trascorsi quasi cinquant’anni e, se il movimento numerico della categoria dei medici di famiglia e della popolazione italiana degli ultimi dieci anni non si arrestasse, nel 2030 potremmo avere una popolazione di poco meno di 58 milioni di abitanti, con un’età mediana di quasi 50 anni servita da appena 32 mila medici di famiglia. Quei medici di famiglia che sono invecchiati – sì, anche loro! – insieme ai propri pazienti e che oggi, secondo alcune fonti, sono tra i professionisti più anziani, a maggior rischio di burn-out e di suicidio.
È puerile – o sconsiderato – immaginare di assistere il popolo più anziano d’Occidente con risorse umane addirittura inferiori a quelle impiegate cinquant’anni fa. Ed è intuitivo che il problema non possa essere risolto con un mero cambio di organizzazione o di inquadramenti contrattuali: la stoffa che occorre per cucire un paio di guanti non può bastare per confezionare un cappotto, a prescindere da come la si lavori.
Queste considerazioni prescindono dall’altra – enorme – considerazione sul cambiamento del rapporto medico-paziente, ben descritta da due autori australiani: “L’immagine di pazienti remissivi e dipendenti viene sostituita da quella di consumatori informati di servizi sanitari. […] Vi è una crescente aspettativa riguardo ai servizi, alla qualità e a un senso di proprietà dei programmi sanitari. Questo fenomeno è influenzato da fattori economici, come il crescente ricorso a strategie di finanziamento […] in cui i consumatori acquistano direttamente servizi sanitari”.
La transizione da “persona-paziente interessata al proprio percorso di cura” a “paziente-proprietario del percorso di cura” contribuisce al mantenimento di un consumismo sanitario sconosciuto fino a pochi anni fa che, come problema ad un macro-livello sociale, non può trovare soluzione nel micro-livello di una medicina generale burocraticamente utilizzata come contenitore di spesa, stante anche il fatto che questo consumismo non è scomodo a realtà – scoperte e nascoste – economicamente interessate. Degli effetti di queste e altre trasformazioni sociali in termini di litigiosità e talora di puri atti di criminalità nei confronti dei camici bianchi, poi, sono piene le pagine dei giornali.
I presupposti di universalità del sistema sanitario e la copertura di ventiquattro ore della assistenza alla popolazione risalenti alle origini dell’SSN erano tarati su un’Italia molto più giovane, con un contingente medico di base relativamente sufficiente all’epoca e un’ospedalità molto più ampia. Oggi, con una popolazione dai bisogni di salute inimmaginabilmente aumentati e un volto socio-economico-culturale diversissimo rispetto a cinquant’anni fa, non si può assicurare la stessa modalità di accesso e continuità, tanto meno un modello “full H24”, a meno di una significativa iniezione di personale – medico e non – e liquidità nel sistema.
Qualsiasi ipotesi di cambiamento ad iso-risorse è realisticamente nulla o deve contemplare da parte dei decisori il coraggio di comunicare alla popolazione che l’assistenza non potrà più essere universale, equa, solidale e continua. E non è questa la sede per parlare del fatto che questo mutamento possa non essere del tutto fuori dal destino di un paese in cui vengono confusi costo (zero per il paziente, se le cure sono gratuite) e valore.
Anche i sistemi sanitari di altri paesi hanno attraversato momenti di crisi.
Nonostante le sfide evidenti, possiamo e vogliamo pensare che il nostro sistema sanitario non sia senza speranza. Ci sono molte prove nel mondo che dimostrano come l’investimento strategico e la volontà politica possano trasformare radicalmente le strutture sanitarie. È essenziale che le istituzioni comprendano l’importanza di destinare risorse adeguate per affrontare le crescenti esigenze sanitarie della nostra popolazione in continua evoluzione. Solo con un impegno concreto e un investimento significativo possiamo aspirare a un sistema sanitario che non solo risponda alle aspettative moderne, ma che sia anche un esempio di eccellenza e innovazione per le future generazioni. Di fronte alle difficoltà più gravi, solo le decisioni coraggiose e i grandi sforzi possono trasformare la crisi in opportunità.
La Danimarca ha saputo programmare con lungimiranza il numero di medici di assistenza primaria, gestendo il ricambio generazionale e incentivando la loro permanenza in zone meno servite. Ciò è stato permesso da un costruttivo coordinamento tra Ministero e autorità locali per definire il fabbisogno di medici, dall’invio mirato di professionisti (non coscritti) nelle aree carenti fornendo loro supporto logistico ed economico, da strutture territoriali moderne in cui i medici operano con infermieri e personale di supporto per ridurre la burocrazia.
L’Australia, dovendo affrontare il problema delle vaste aree rurali e remote, ha varato piani di incentivi per coprire territori difficili, tra premi economici crescenti secondo l’isolamento geografico (i cosiddetti rural loadings), contratti vincolati (cosiddetti return-of-service) per i quali medici che ricevono borse di studio pubbliche devono rimanere non meno di un certo tempo nelle zone carenti, e sistemi di telemedicina realmente funzionali.
A proposito di digitalizzazione sanitaria, i paesi nord-europei, eccellenze mondiali nel campo, hanno dimostrato come sia possibile la riduzione drastica della burocrazia e la semplificazione dell’accesso ai dati. Tra gli esempi virtuosi, l’esperienza estone della ricetta elettronica universale, del portale unico per i servizi sanitari, delle firme digitali per la dematerializzazione vera; i Kanta Services finlandesi come piattaforma nazionale (utilizzabile anche a livello internazionale) per il fascicolo sanitario elettronico, le prescrizioni, la telemedicina, i servizi basati su intelligenza artificiale; l’adozione di protocolli di sicurezza e gestione del consenso, con possibilità di oscurare alcuni dati in ossequio alle preferenze del singolo ma senza bloccare l’interoperabilità di un sistema generale il cui funzionamento è tutelato come interesse della collettività.
La Nuova Zelanda, con le Primary Health Organizations (PHOs), ha mostrato come un approccio integrato (sanitario e sociale) e proattivo possa ridurre i ricoveri e migliorare gli esiti di salute. In termini puntuali possiamo menzionare la capitazione allargata che copre anche i servizi di tipo sociale delle PHOs, responsabilizzando l’organizzazione su un bacino di utenza; le esperienze di medicina di iniziativa messe in atto da équipe che contattano proattivamente i pazienti cronici, monitorandoli anche a domicilio; la riduzione di complicanze e spese ospedaliere grazie alla presa in carico integrata.
Luigi Galvano
Fimmg Palermo
Andrea Scalisi
Simg Palermo