Gentile Direttore,
da bambino, ammiravo le bellissime gambe delle gemelle Kessler, il sabato sera e non sapevo perché, avendo solo 8 anni. Oggi, da medico, so benissimo perché si decide di morire a 89 anni con un suicidio assistito. La notizia ripropone il dibattito sul tema spinoso del “fine vita”, ma sempre con gli stessi limiti e fraintendimenti etici. La cosa sa tanto di omicidio volontario, tanto da smuovere inutilmente la magistratura e le coscienze religiose, ma il punto cruciale è la legittima rivendicazione della proprietà della vita.
Sgombro il campo dagli equivoci: la vita di una persona, non appartiene allo Stato e non appartiene a dio. Lo Stato può regolamentare e assistere una comunità di persone, ma non è depositario del senso e del destino di una persona, anche perché possiamo solo indirizzare il nostro destino con le nostre azioni, ma la vita non ha un senso, perché biologicamente appartiene a se stessa e non ha un indirizzo né statale, né religioso. Un cattolico potrebbe affermare che la vita appartiene a dio, perché da dio proviene, ma è un discorso di fede, non filosofico, in questo caso, il senso di una vita sarà il regno dei cieli, una scelta comprensibile ma non valida per tutti. Un ateo ha solo un regno terreno e solo qui conclude il suo destino. La vita appartiene a se stessa, è un fenomeno fine a se stesso e si alimenta con i propri meccanismi, fino ad un certo punto.
Con la vecchiaia e le malattie, il meccanismo si inceppa e prima di fermarsi può diventare un calvario dove il dolore diventa totalizzante e disumanizzante. Da medico, ho visto tante, troppe volte, malattie devastanti con notti e giorni di sofferenza indicibili e la perdita assoluta di autonomia e dignità. Al malato terminale viene tolto tutto, dalle autonomie più elementari e basilari della vita, fino alla quotidiana assenza di senso e futuro del proprio esistere. Non possono, lo Stato e qualsiasi credo religioso, togliere anche l’ultima scelta libera di una persona: scegliere come morire, dopo aver scelto come vivere.
Altro pernicioso fraintendimento è l’etica medica che discende dal nostro Giuramento di Ippocrate: “non darò mai un medicamento mortale, anche se richiesto” diceva il medico greco di Cos, escludendo a priori ogni tipo di eutanasia dalla pratica medica. Storicamente, ai tempi di Ippocrate, pochi superavano i 50 anni di vita, la scienza medica era così limitata da poter incidere molto poco sulla storia naturale di una malattia. Oggi, abbiamo cronicizzato tante malattie con tecniche inimmaginabili nella Grecia antica, fino a poter sostenere anche flebili spiragli di vita, ma il compito di un medico, non è un lavoro etico, non è giudizio morale, ma patto terapeutico con il paziente, fino a rispettare anche la volontà di mettere fine ad un dolore incoercibile e senza senso.
Un medico non dà la morte, può solo interrompere un crudele calvario, che porta via un pezzo di vita ogni giorno, fino al boccone finale di una morte che ti seppellisce un pezzo per volta. Ma è necessaria una legge sul fine-vita, laica, responsabile, umana e che tuteli ogni libertà.
Enzo Bozza
Medico MMG a Vodo e Borca di Cadore (BL)