Gentile Direttore,
molta della discussione sul DM 77 si sta incentrando su quali servizi e quali professioni introdurre, in particolare nelle Case della Comunità, concentrandosi quindi molto di più su aspetti organizzativi e di risorse che sul “cosa fare”. Ovviamente tutto questo è molto importante ma altrettanto importante è la cultura professionale necessaria per lavorare nel “territorio” ovvero nella comunità. Per questo la Casa della Comunità non può essere pensata come un ulteriore edificio ma come dice il Forum Diseguaglianze ed Diversità “un luogo dei luoghi”. Ma quali sono questi luoghi?
La comunità è innanzitutto un luogo di persone e di relazioni. Qui i cittadini e i malati si incontrano a casa loro, nelle loro famiglie. Un luogo quindi dove la gerarchia dei valori e il contesto sono dettati dai soggetti non dai servizi. In ospedale, in RSA si entra in camera senza chiedere permesso, gli spazi sono decisi da noi, a casa si suona il campanello e ci si muove chiedendo “posso”? Il nostro personale potere professionale cambia campo di gioco.
La comunità è “luogo dei luoghi” dove è completamente diverso svolgere un servizio in un appartamento in città o in una casa isolata della Lunigiana. Diverso è l’approccio, il tempo, la rete, le tecnologie e i collegamenti, la rete che sta attorno. Anche lavorare in stagioni diverse cambia.
La comunità è un luogo di poteri e di risorse. Dentro i muri dell’istituzione “comandiamo noi”, anzi spesso erigiamo muri e definiamo confini. Nella comunità sono altri che creano e definiscono la rete, le risorse non sanitarie, i servizi che aiutano la cura e l’assistenza, la forza del volontariato e delle cure informali.
La comunità è insicurezza e cambiamento continuo. Non si può immaginare un PDTA di comunità. Le opportunità, gli ostacoli, le risorse, i desideri e le speranze cambiano continuamente rendendo il lavoro di chi opera in sanità incerto e necessariamente flessibile. Un po’ “senza rete”.
A fronte di queste incertezze e di queste sfide prevale sempre l’idea di proporre modelli organizzativi forti, ben definiti magari uguali per ogni luogo. Nello stesso tempo si trasforma, ad esempio, il profilo dell’infermiere di comunità in un lunghissimo elenco di competenze utopico e velleitario.
Credo che la riflessione debba invece portare a definire modelli organizzativi e professionali territoriali e di comunità flessibili e incerti, perché la comunità ci sfida con domande continue. Forse si dovrebbe insegnare prioritariamente che lavorare nelle comunità richiede a tutti attitudine e pratica di democrazia, ascolto e partecipazione.
Forse in tutti i programmi di formazione e di master che stanno sorgendo si potrebbe iniziare, come insegna Martha Nussbaum (Non per profitto – 2014) a provare a giocare la parte di chi non la pensa come noi, a metterci sul serio nei panni degli altri e superare il consunto slogan de “la persona al centro” che appare più come un atto di concessione che uno spostamento di potere.
Giorgio Simon
Già Direttore Generale Friuli Occidentale