Gentile Direttore,
ho letto con viva preoccupazione l’intervista al Vice Ministro Massimo Garavaglia, pubblicata su Quotidiano Sanità, nella quale si prospetta l’introduzione di una figura di assistente infermiere accessibile con diploma secondario e una retribuzione di poco inferiore a quella dell’infermiere laureato.
Senza affrontare realmente la carenza di personale, questa proposta finisce per sviare la visione del sistema sanitario italiano, allontanandola dagli standard europei e internazionali e dimostrando una chiara sottovalutazione della complessità e della specificità delle ventidue professioni sanitarie.
A partire dal D.M. 509/1999 e dal successivo D.M. 270/2004, la formazione delle professioni sanitarie è stata integralmente inserita nell’ambito universitario, in coerenza con la Direttiva 2005/36/CE e con il processo di Bologna.
L’obiettivo era chiaro: garantire standard formativi elevati, responsabilità professionale e riconoscimento reciproco delle qualifiche nell’Unione Europea.
Oggi, tornare a introdurre un percorso “parallelo” di livello secondario significherebbe riaprire un solco che la normativa e la cultura professionale avevano faticosamente colmato.
Ancora più sconcertante è la previsione di una retribuzione solo di poco inferiore a quella dell’infermiere laureato.
Un differenziale minimo, che contrasta con il principio costituzionale di proporzionalità e adeguatezza della retribuzione (art. 36 Cost.) e che svilisce l’intero impianto formativo universitario.
Perché mai un giovane dovrebbe investire anni di studio e responsabilità per una laurea in Scienze infermieristiche, se lo Stato riconosce quasi lo stesso trattamento economico a chi possiede un titolo inferiore e competenze ridotte?
E, conseguentemente, perché mai un infermiere laureato dovrebbe rimanere a gestire carichi di lavoro e responsabilità maggiori, senza alcun adeguamento economico e professionale?
Ma l’errore più grave è concettuale.
Ridurre la sanità a un sistema composto da “medici e infermieri” è una semplificazione che ignora la realtà normativa e organizzativa del nostro Servizio Sanitario Nazionale.
Esistono ventidue professioni sanitarie riconosciute dalla legge — ventidue! — ciascuna con competenze, responsabilità e ambiti operativi specifici.
Quando un cittadino si sottopone a una risonanza magnetica, non trova un infermiere ma un tecnico sanitario di radiologia medica, laureato e abilitato all’esercizio professionale.
Quando effettua un prelievo ematico o un’analisi di laboratorio, ad occuparsi di quel sangue c’è un tecnico sanitario di laboratorio biomedico, non un infermiere.
E quando ha bisogno di riabilitazione, la sua presa in carico è affidata a un fisioterapista, non a un generico operatore assistenziale.
E queste sono solo tre delle ventidue professioni sanitarie che operano quotidianamente nel Servizio Sanitario Nazionale, garantendo qualità, sicurezza e continuità delle cure.
Ognuna di queste figure svolge un ruolo insostituibile nel garantire la continuità, la sicurezza e la qualità delle cure, in attuazione dell’art. 32 della Costituzione.
Il vero problema, dunque, non è la “carenza di personale”, ma la mancanza di visione.
Una politica sanitaria moderna dovrebbe investire sulla valorizzazione delle competenze, sul potenziamento dei percorsi universitari, sulle specializzazioni post-laurea e sull’integrazione multidisciplinare.
Creare figure ibride, prive di un riconoscimento pieno e confinate in una zona grigia di funzioni, non risolve alcuna emergenza: genera solo confusione, demotivazione e regressione.
L’Italia non ha bisogno di tornare a un modello sanitario dequalificato.
Ha bisogno, piuttosto, di riaffermare il principio per cui la competenza, la responsabilità, il merito e la dignità professionale non sono costi da comprimere ma valori da difendere.
Mattia La Rovere Petrongolo
Responsabile Dipartimento Salute Partito Democratico Chieti
TSRM Asl Lanciano Vasto Chieti – Radioterapia oncologica
Dirigente Sindacale Asl Chieti CO.IN.A. Sede Nazionale