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Terapia ormonale in menopausa: aumenta il rischio di Alzheimer?

di Maria Rita Montebelli

Uno studio finlandese riapre il dibattito sui rischi della terapia ormonale in menopausa. Se iniziata dopo i 60 anni o se protratta per oltre 10 anni si associa ad un aumento del rischio di Alzheimer dal 9 al 17%. Le associazioni di estro-progestinici sembrano a un maggior rischio rispetto alla terapia a base di soli estrogeni. Un editoriale di commento allo studio ribadisce però la sostanziale neutralità sul rischio cognitivo di una terapia ormonale sostitutiva iniziata a ridosso della menopausa e di breve durata.

09 MAR - Uno studio finlandese appena pubblicato su BMJ ha individuato un piccolo aumento del rischio di Alzheimer nelle donne in terapia ormonale sostitutiva. Lo studio, siglato come primo nome da Hanna Savolainen-Peltonen, professore associato di ostetricia e ginecologia presso l’ospedale universitario di Helsinki, ha confrontato l’uso di terapia ormonale in menopausa nelle donne finlandesi con o senza diagnosi di Alzheimer. I ricercatori finlandesi hanno attinto ai registri nazionali finlandesi di popolazione e dei farmaci negli anni compresi tra i 1999 e il 2013. Nello studio sono state incluse tutte le donne finlandesi in post- menopausa che tra il 1999 e il 2013 avevano ricevuto una diagnosi di Alzheimer da parte di un neurologo o un geriatra e che erano presenti all’interno del registro nazionale dei farmaci. Come controlli è stata utilizzata una coorte di donne senza diagnosi di Alzheimer (84.739), scelte in base all’età e al distretto ospedaliero, sempre all’interno del registro nazionale di popolazione finlandese.
 
Il 98,8% (83.688) delle donne con Alzheimer aveva ricevuto questa diagnosi all’età di 60 anni o oltre, mentre il 55.7% (47.239) aveva 80 anni o più al momento della diagnosi.
 
L’impiego di terapia ormonale sostitutiva sistemica è risultato associato ad un aumento del 9-17% del rischio di Alzheimer. Non sono state riscontrate differenze significative nel rischio di sviluppare questa malattia tra le pazienti in trattamento con solo estradiolo ( + 9%) o con associazioni di estro-progestinici (+17%) e in questo caso il rischio non variava in base al tipo di progestinico utilizzato. Tuttavia, nelle donne con meno di 60 anni al momento dell’inizio della terapia ormonale, l’aumento di rischio di Alzheimer è risultato associato ad un’esposizione alla terapia ormonale per oltre 10 anni. L’impiego di estradiolo per via vaginale non conferiva un aumento del rischio.
 
Gli autori concludono dunque che l’assunzione di terapia ormonale sostitutiva sistemica per lunghi periodi potrebbe associarsi ad un aumentato rischio di Alzheimer, che non appare correlato né al tipo di progestinico utilizzato, né all’età di inizio della terapia (in questo studio). Il rischio non aumenta con l’applicazione topica (vaginale) di estradiolo. Sebbene l’aumento assoluto del rischio di Alzheimer sia basso, secondo gli autori, i risultati di questo studio dovrebbero essere trasmessi come informazione alle donne che stanno assumendo o che assumeranno terapia ormonale sostitutiva in post- menopausa.
 
In un editoriale di commento, firmato da Pauline M. Maki (University of Illinois, Chicago), Lucille M. Girard (rappresentante dei pazienti nella Women’s Health Initiative), JoAnn E. Manson (dipartimento di epidemiologia, Harvard T.H. Chan School of Public Health, Boston), le autrici sottolineano rassicurano subito le donne sul fatto che l’impiego della terapia ormonale per controllare i sintomi della menopausa per qualche anno è sicuro. Di certo, studi come questo sono importanti. Perché due pazienti con Alzheimer su tre sono donne, perché si stima che la prevalenza di questa condizione triplicherà da qui al 2050  e perché ad oggi non esistono trattamenti efficaci. E’ dunque molto importante focalizzare tutti gli sforzi sulla prevenzione primaria. Sull’impiego della terapia ormonale sostitutiva in menopausa i dati sono contrastanti, da una parte le metanalisi degli studi osservazionali l’hanno associata ad una riduzione del 29% del rischio di Alzheimer; dall’altra lo studio Women’s Health Initiative Memory Study (WHIMS), che è l’unico trial randomizzato sull’uso di terapia ormonale in post-menopausa per la prevenzione dell’Alzheimer, ha riscontrato con le associazioni estro-progestiniche, un rischio doppio di demenza da tutte le cause.
 
Questi risultati contrastanti hanno dato molto da discutere. E’ stata formulata ad esempio l’ipotesi del ‘timing’ di inizio della HRT, che è generalmente intorno ai 52 anni, mentre nel WHIMS veniva instaurata a 65 anni o oltre (se iniziata precocemente potrebbe conferire protezione, tardivamente un rischio aumentato di Alzheimer). Vari studi di buona qualità hanno dimostrato che la HRT nelle giovani donne (50-52 anni) in post-menopausa non influenza in maniera negativa le funzioni cognitive; lo studio WHIMS tuttavia suggerisce che instaurare tardivamente la HRT, soprattutto se sotto forma di associazione estro-progestinica, e per lunghi periodi potrebbe conferire un netto aumento del rischio di Alzheimer.
 
Sull’interpretazione dei risultati dello studio finlandese, le editorialiste invitano alla prudenza; perché si tratta di uno studio su registri, con tutti i bias del caso; perché il trattamento con HRT di breve durata comunque non aumentava il rischio di Alzheimer tra coloro che iniziavano la terapia prima dei 60 anni; perché ‘correlazione’ non significa necessariamente rapporto di ‘causalità’.
Insomma, alla luce di tutte queste considerazioni, secondo le editorialiste, i risultati dello studio finlandese non dovrebbero influenzare la decisione clinica di somministrare la HRT per controllare i sintomi vasomotori della menopausa. Certo, rimangono i dubbi sulla sicurezza di un uso prolungato della HRT, soprattutto sotto forma di associazioni estro-progestiniche.
 
Maria Rita Montebelli

09 marzo 2019
© Riproduzione riservata

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