Rispondo volentieri all’invito del Prof. Cavicchi ad intervenire nel Forum che si è aperto su QS a partire dalla pubblicazione del suo libro “Oltre la 180” che affronta temi a me molto cari ed ai quali, penso di poterlo dire, ho dedicato buona parte del mio impegno istituzionale nel sistema di salute mentale italiano.
Negli ultimi cinque anni si sono registrati autorevoli interventi volti a segnalare le contraddizioni e le difficoltà in cui versa il sistema di salute mentale italiano. C’è chi ha parlato di “tradimento” della riforma[1], chi ha sottolineato la fragilità epistemologica e scientifica della cultura psichiatrica[2], chi ha parlato di una vera e propria agonia[3].
Premetto ad ogni mio ragionamento due cose. La prima che è bene che la psichiatria ed il discorso più generale della salute mentale siano perennemente in crisi, vale a dire soggetti a critica, costantemente ridiscussi ed aperti ad ogni necessario cambiamento[4]. Le cose peggiori della storia della psichiatria sono successe quando tale discussione è mancata, generando false sicurezze scientifiche, politiche ed istituzionali.
La seconda è che dopo trent’anni di impegno istituzionale, a distanza di un anno dal mio pensionamento, non intendo associarmi al coro di quanti raggiunta la quiescenza prendono le distanze dal sistema stesso, denunciando le sole aberrazioni, gli evidenti limiti, le contraddizioni, senza riconoscere il valore delle cose che sono successe in quarantaquattro anni di Servizio Sanitario Nazionale e di pratica di Salute Mentale all’interno di esso.
Potrà essere un conflitto di interesse intrinseco (“non riesco a pensare di avere dedicato la mia vita professionale ad una causa sbagliata”), ma preferisco pensare che l’appartenenza al SSN ed al sistema di salute mentale italiano mi abbia reso acutamente consapevole del valore di ciò che si fa ed anche dei tanti limiti e delle pesanti contraddizioni che gravano su di esso.
Perchè un vero pensiero riformista (e non l’ennesima rivoluzione che cambia tutto per non cambiare nulla) possa maturare occorre una valutazione equilibrata del bilancio di sistema, delle realizzazioni e dei fallimenti, delle attuali carenze culturali, professionali, politiche ed organizzative, delle esperienze e delle evidenze più promettenti per una pratica realmente riformatrice. Per usare una formula che il DSM di Bologna adottò come motto per la celebrazione dei 40 anni della Riforma Psichiatrica, “chi non innova perde il proprio passato”.
Riformare è un concetto fondamentale, che in Italia viene costantemente richiamato ma scarsamente praticato, che evoca istanze di radicale cambiamento a partire dal livello legislativo, mentre nei paesi di lingua anglo-sassone indica più appropriatamente (reforming) un processo di costante valutazione critica qualitativa e quantitativa di ciò che è stato deciso e realizzato e le conseguenti decisioni di aggiustamento o cambiamento.
Fatte queste due doverose premesse, non posso che essere d’accordo sul fatto che la necessità di un percorso riformatore del sistema di salute mentale italiano si sia fatta di anno in anno più cogente, specialmente dopo gli ultimi due in cui il Servizio Sanitario Nazionale (e la salute mentale al suo interno) è entrato in una condizione di grave sofferenza per ragioni in parte legate a problemi strutturali di lungo termine ed in parte allo tsunami costituito dalla pandemia. Ma quali sono i termini di questa crisi del sistema di salute mentale.
Nel 2018 scrivevo su una autorevole rivista internazionale[5]: “Quarant'anni dopo, il bilancio della psichiatria italiana sembrerebbe a prima vista abbastanza positivo. Guardando agli elementi oggettivi, l'Italia ha realizzato il più grande e radicale processo di deospedalizzazione nella storia della psichiatria, implementando al contempo un sistema di servizi alla comunità diffuso su tutto il territorio nazionale, seppur con gradi di solidità e qualità molto vari. La centenaria divisione tra servizi ordinari e servizi forensi è stata superata, riportando all'interno dei dipartimenti del SSN l'assistenza alla salute mentale dei malati di mente autori di reato. Tutto questo senza impatti significativi in termini di abbandono, criminalizzazione dei malati di mente, senzatetto, allarme sociale o aumento dei suicidi. Tutto sommato l'Italia è il Paese con il più basso grado di coercizione formale nei confronti dei malati di mente, per chi, come me, rappresenti un valore.
Eppure l'aria che si respira dentro e intorno alla psichiatria italiana non è affatto caratterizzata dall'ottimismo e dall'orgoglio per questi risultati. Prevalgono le incertezze, le paure e le frustrazioni, molto diverse dall'entusiasmo audace di quarant'anni fa.
Certamente giocano un ruolo importante le profonde trasformazioni che nei decenni hanno attraversato la società italiana e si sono riflesse sul SSN. Per oltre dieci anni, ai servizi di salute mentale è stato chiesto di fare molto di più, con molto meno e in una società molto meno protettiva. Per l'ottavo anno consecutivo il finanziamento del SSN è rimasto invariato, che a fronte di costi crescenti porta ad una riduzione effettiva di circa il 15%. […]
Allo stesso tempo, lo spettro dei bisogni si è ampliato e diversificato, sotto l'effetto combinato di una maggiore vulnerabilità psicosociale (ad esempio, i migranti di seconda generazione, la crescente popolazione di poveri nelle città, l'effetto dell'uso precoce di sostanze) e la disponibilità di interventi tecnici costosi che sono accreditati con prove scientifiche (ad esempio, psicoterapie nei disturbi della personalità, terapia comportamentale nell'autismo...). Sono problemi che affliggono tutte le società contemporanee, ma che in Italia più che altrove sembrano far scricchiolare l'impianto che quarant'anni fa era stato allestito con il SSN e con la deistituzionalizzazione in psichiatria”.
Perdonate la lunga autocitazione, che mi serve solo per riaffermare quanto scrissi quattro anni fa, aggiungendo che nel frattempo la situazione è diventata non tanto allarmante, ma insostenibile, ponendo con viva forza l’esigenza di un percorso riformatore. Il tema non è più se riformare, ma come riformare.
Molti equivoci vanno tolti di mezzo per poter aprire la strada ad un vero processo riformatore.
Ben diversa è la tradizione inglese nella quale le leggi di riforma arrivano al termine di periodi di sperimentazione (il che mette le istituzioni in un perenne stato di messa in discussione) che consentono al legislatore di recepire i risultati ottenuti e di portarli a regime in tempi relativamente brevi. Personalmente ritengo che il secondo sia un percorso che incarna meglio il concetto di riforma, mentre il nostro è un rosario di rivoluzioni (la maggior parte avviate negli anni ’70, dopo si è visto ben poco) che a volte producono bruschi turning-point istituzionali a volte finiscono nel nulla (la riforma penitenziaria ad esempio). La riforma psichiatrica è stato indubbiamente uno di questi punti di svolta, principalmente per il potenziale contenuto nella pars destruens (la chiusura dei manicomi) che ha indirettamente orientato le amministrazioni sanitarie alla apertura di servizi territoriali che poi, soprattutto dopo il 2000 si sono diversificati sulla base delle programmazioni autonome regionali (quando le programmazioni sono state fatte).
Ma la legge 180 è un unicum storico ed è anche un unicum nel panorama internazionale[6] e non bisogna nutrire eccessive aspettative di palingenesi del sistema su base legislativa. A ben guardare la legge 180 è stata fondamentale nel determinare le regole generali del rapporto tra cittadino e Stato rispetto ai temi della libertà e della coercizione, ma non aveva in sé nessun elemento esplicito di policy e di programmazione. Il più generale “difetto di fabbrica” della 180, per usare la terminologia di Cavicchi, consiste nel avere svolto al 100% il proprio compito in quanto legge (l’equilibrio più liberale dell’Occidente per quanto attiene libertà e coercizione), lasciando a successivi atti di policy e di programmazione la realizzazione del sistema. Il che ha reso opaco il sistema, scarsamente valutabili le realizzazioni, irrealizzabile un serio percorso di miglioramento continuo.
E’ significativo che l’Italia sia, a mia conoscenza, l’unico paese europeo ed uno dei pochi al mondo, nel quale non esista né un Istituto Nazionale per la salute Mentale (tipo il NIMH americano), né una Direzione Generale per la Salute Mentale al Ministero, ma neppure una Unità di valutazione presso AGENAS oppure una Unità di Salute Mentale presso l’Istituto Superiore di Sanità. In tutti gli stati europei esiste almeno un’unità centrale che è preposta alla predisposizione dei documenti di policy ed al coordinamento dei piani regionali. Ma anche alla programmazione dei fabbisogni di risorse umane e finanziarie, nonché allo sviluppo della ricerca e della formazione sia professionalizzante che continua. Questo sistema è meno che abbozzato in Italia, il che ha indotto alcune (poche) regioni a procedere in autonomia, definendo proprie policies e piani (con risultati divergenti, ma interessanti, con ottime opportunità di confronto ai fini di un processo riformatore nazionale), mentre la maggior parte naviga a vista nella più completa deregulation.
Tornando al discorso del potenziale riformatore delle leggi, occorre constatare che in realtà abbiamo avuto altre due leggi che hanno inciso molto significativamente sul rapporto tra cittadino e stato in materia di libertà e coercizione: la legge 6/2004 (Amministrazione di Sostegno) e la legge 81/2014 che ha portato alla chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. Quando parliamo di riforma occorre guardare al sistema nella sua interezza. Oggi si fanno in Italia meno della metà dei TSO che si facevano negli anni ’80, le misure di sicurezza detentive sono la metà di quelle che avevamo nel 2010, ma sono decuplicate le misure di sicurezza non detentive (spesso veri e propri affidi in bianco al DSM) e non abbiamo un numero esatto delle decine di migliaia di pazienti sottoposti beneficiari di una amministrazione di sostegno.
Il rapporto di forza tra Stato e cittadino si è modificato, con riduzione della coazione amministrativa ed espansione di quella civile e penale. Vorrà pur dire qualcosa tutto ciò? Vogliamo partire da questo elemento basilare per orientare un percorso riformatore? Lo vogliamo dirigere verso maggiori gradi di libertà o verso un rafforzamento del potere direttivo dello stato?
A questo proposito voglio portare un esempio personale delle difficoltà concrete che i processi riformatori incontrano in Italia. Tra il 2008 ed il 2009 collaborai insieme all'amico e collega Marco D'Alema con il prof. Paolo Cendon (considerato il "padre della Amministrazione di Sostegno") per predisporre nel un progetto di legge che la sen. Livia Turco presentò in Commissione al Senato sulla "salvaguardia del diritto al sostegno ed alle cure delle persone affette da disagio mentale e dei loro familiari", nel quale si ritrovavano principi e disposizioni per orientare sulla sfera civile e meglio articolare un sistema di diritti, doveri e garanzie nel complicato rapporto Stato-cittadino.
Queste idee trovarono una fortissima opposizione da parte di quella che Cavicchi definirebbe "l’ala apologetica" del movimento per la salute mentale italiano e fu presto ritirato. Non voglio dire che la proposta fosse perfetta, ma desidero sottolineare come di fatto non fu possibile neanche aprire una discussione su un tema che, lasciato languire per molti anni, rischia oggi di diventare pretesto per bruschi ritorni al passato in chiave securitaria. Sussistono infatti resistenze dentro il mondo professionale psichiatrico e nella politica a immaginare un diverso e più moderno assetto normativo, anche se non ne va sopravvalutata la potenziale portata.
Al massimo una nuova legge potrebbe riformare positivamente l’architrave della relazione Stato-cittadino, ammodernandola, declinando più chiaramente il campo dei diritti, dei doveri e delle garanzie reciproche. Da questo punto di vista la 180 ha 44 anni e li dimostra tutti.
Cavicchi ha ragione, è sempre più necessario avviare un percorso riformatore, non solo o non tanto della legge, ma soprattutto delle pratiche, della cultura professionale, delle organizzazioni e dei processi di formazione (come non condividere quanto scrive sul “cane morto” della formazione universitaria!).
Personalmente ritengo che la crisi del sistema di salute mentale rifletta la crisi dell’intero sistema di welfare, ma che, per una serie di fattori storico-istituzionali, abbiamo goduto all’interno del SSN di gradi di libertà maggiori rispetto alle altre discipline (contraltare della scarsità dei momenti di coordinamento e verifica) e che ciò ha consentito una varietà di sperimentazioni (a volte veri e propri eroismi) che offrono spunti interessanti per guidare i percorsi riformatori, non solo della salute mentale, ma della sanità e del welfare in generale.
Con il Next Generation EU ed PNRR si dovrebbe essere innescata una transizione, quella del welfare pubblico universalistico che accomuna la maggior parte dei paesi ad alto reddito e che costituisce uno dei temi centrali delle politiche di “ripresa e resilienza” europee e delle cosiddette economie emergenti. L’elemento centrale di questa transizione è la insoddisfazione per il welfare redistributivo-prestazionale, indubbiamente una delle grandi conquiste sociali del Novecento, che tra previdenze, assistenza sociale e sanitaria, pur con modelli diversificati, ha grandemente contribuito allo sviluppo sociale ed economico dell’umanità.
Ma questa concezione che vede nel welfare una forma di redistribuzione del reddito, una garanzia di uguaglianza a vantaggio dell’intera società, ma soprattutto a tutela delle classi svantaggiate, mostra da diversi decenni dei limiti fondamentali sia nel senso della sua sostenibilità, sia rispetto alla funzione di sviluppo del potenziale umano, individuale e sociale. E’ quindi iniziato il cammino che dovrebbe portarci ad un welfare generativo, partecipativo, progettuale, fatto di strumenti flessibili e di potente innovazione.
Per quanto la maggior parte dei documenti di programmazione europea, nazionale e regionale contengano enunciazioni che orientino a modelli di intervento centrati sulla persona, alla recovery, all’empowerment, alla partecipazione e ad altri concetti propri di un welfare generativo, questa transizione è tutt’altro che realizzata.
Anzi, potremmo dire cha la quotidianità dei servizi alla persona, compresi quelli sanitari e di salute mentale, è ancora fortemente ancorata su pratiche centrate sui servizi, basate su principi di equità distributiva, su menu di prestazioni predeterminate, qualificate attraverso processi di standardizzazione, rese da professionisti che mantengono un ruolo di valutatori ed erogatori nei confronti di cittadini confinati in ruoli sostanzialmente di passivi recettori. Ma di anno in anno si avverte la tensione crescente, la insoddisfazione diffusa che porta a chiedere pratiche centrate sulla persona (non più utente o paziente), su principi di efficacia, su progettazioni individuali, qualificate attraverso processi di negoziazione, regolate da strumenti di diritto contrattuale, sostenute da professionisti che accompagnano il cittadino e la sua famiglia in percorsi di autocura ed autopromozione.
Qua e là, in Italia ed in Europa, germogliano pratiche in cui si realizzano veri “progetti terapeutico-riabilitativi individuali”, “progetti di vita”, “progetti di cura”. Nascono nuovi istituti di tutela economica e dei diritti personali, come l’Amministrazione di Sostegno, i Trust, i Fondi di Partecipazione. Si affermano nuovi strumenti di inclusione socio-lavorativa come l’Individual Placement and Support (IPS), i programmi di transizione al lavoro, gli strumenti di responsabilizzazione sociale delle imprese. Maturano esperienze di protagonismo degli utenti che diventano a loro volta “peer-supporters” o “carers”. Si generano organismi di garanzia per le fragilità, a favore delle persone private della libertà, dei minori, dei disabili. Compaiono legislazioni specifiche per la progettazione non solo degli individui, ma dei nuclei familiari, come nel caso del c.d. “Dopo di Noi” e dei caregivers.
In questo contesto le esperienze e le pratiche di una buona parte dei servizi di salute mentale italiani hanno qualcosa di importante e di originale da dire. Personalmente ritengo che le migliori pratiche di salute mentale italiane si avvicinino al concetto che Cavicchi propone di “scienza impareggiabile”, che io interpreto come scienza che non potrà mai essere “in pari”. Non potrà mai considerarsi “arrivata in pari”, perché non è mera applicazione tecnica di conoscenze scientifiche, ma pratica della complessità, con statuti scientifici deboli e plurimi, che richiede ai professionisti forti motivazioni etiche, solida preparazione scientifica (in tutti i campi, dalla neurobiologia alla antropologia culturale), forte propensione alla intersoggettività, capacità di coniugare gli a priori con le contestualità, organizzazioni con ruoli chiari e flessibili, matrici eccentriche.
Ecco, io mi riconosco in una identità riformatrice e confido di essere riuscito a svolgere il mio lavoro istituzionale in tal senso, innovando per non perdere il passato. Oggi innovare e riformare è quanto mai necessario. Auspico che tale percorso si avvii seriamente, partendo da quattro punti:
Il Collegio Nazionale dei Dipartimenti di Salute Mentale che ho l’onore di presiedere ha seguito con attenzione i lavori che il Ministero della Salute ha avviato con la costituzione del Tavolo Tecnico e con la celebrazione della Conferenza Nazionale sulla Salute Mentale tenutasi nel giugno 2021. Ha partecipato ad entrambi con impegno e leale spirito di collaborazione istituzionale, confidando che potesse essere l’inizio di un reale processo riformatore. Ad oggi non possiamo dire che ciò sia avvenuto, anzi molti segnali indicano un’ulteriore caduta del tema salute mentale nella agenda politica ed istituzionale.
Cittadini, utenti, familiari, professionisti, attivisti, amministratori, tutti vivono quella insoddisfazione diffusa che di solito precede i momenti di rottura. La discussione pubblica è ancora troppo soffice e disordinata, spesso viziata tanto da nostalgie apologetiche quanto da irrealistici balzi in avanti. Siamo però fiduciosi che un campo così cruciale della nostra vita civile possa essere rimesso in discussione nei modi più appropriati, superare i propri limiti e contribuire creativamente alla rigenerazione del welfare nazionale.
Grazie a Cavicchi e Quotidiano Sanità che hanno aperto questo spazio di discussione.
Angelo Fioritti
Già Direttore del Dipartimento Salute Mentale- Dipendenze Patologiche, AUSL Bologna
Presidente del Collegio Nazionale dei Dipartimenti di Salute Mentale, APS
Leggi gli altri interventi: Fassari, Cavicchi, Angelozzi, Filippi, Ducci.
Note:
[1] Maria Grazia Giannichedda, Dopo Basaglia. La Riforma Psichiatrica tradita. Il Manifesto, 28 Agosto 2020.
[2] Benedetto Saraceno, Sulla povertà della psichiatria, DeriveApprodi, 2017.
[3] Eugenio Borgna, L’agonia della psichiatria, Feltrinelli, 2022.
[4] Ludwig Binswanger, La psichiatria come scienza dell’uomo. Mimesis, 2013.
[5] Angelo Fioritti, Is Freedom still Therapy? The 40th Anniversary of the Italian Psychiatric Reform, Epidemiology and the Psychiatric Science, 2018,
[6] Angelo Fioritti, Leggi e salute mentale: panorama europeo delle legislazioni di interesse psichiatrico, Centro Scientifico Editore, Torino, 2002