Recovery Plan. Case della Comunità: fine del medico di famiglia, soluzione dei mali del territorio o flop già annunciato? 

Recovery Plan. Case della Comunità: fine del medico di famiglia, soluzione dei mali del territorio o flop già annunciato? 

Recovery Plan. Case della Comunità: fine del medico di famiglia, soluzione dei mali del territorio o flop già annunciato? 
Nel Piano che sarà approvato dal Parlamento entro fine mese per quanto riguarda la mission Salute uno dei capisaldi è la costruzione di presidi che ricalcano le poco fortunate Case della Salute che dovrebbero risolvere i problemi dell’assistenza territoriale. Ma il piano non scioglie il nodo vero, quello del destino dei medici di famiglia (a cui il progetto non piace) su cui in realtà poggia il successo o il nuovo flop di questo nuovo presidio.

La costituzione delle Case della Comunità è uno dei capisaldi del Recovery Plan italiano per la mission Salute che sarà approvato dal Governo entro fine mese e si presentano come la rivoluzione dell’assistenza territoriale.
 
Nel piano si prevede che ne vengano istituite in 5 anni ben 2.564, una ogni 24.500 abitanti per una spesa totale di 4 mld di euro (circa 1,6 mln di euro l’una).
 
“Il Progetto – spiega il Governo – nasce per potenziare l'integrazione complessiva dei servizi assistenziali socio-sanitari per la promozione della salute e la presa in carico globale della comunità e di tutte le persone, siano esse sane o in presenza di patologie (una o più patologie) e/o cronicità”.
 
Per realizzare tale integrazione, il progetto prevede dunque “la realizzazione di strutture fisicamente identificabili (“Casa della Comunità”), che si qualificano quale punto di riferimento di prossimità e punto di accoglienza e orientamento ai servizi di assistenza primaria di natura sanitaria, sociosanitaria e sociale per i cittadini, garantendo interventi interdisciplinari attraverso la contiguità spaziale dei servizi e l’integrazione delle comunità di professionisti (équipe multiprofessionali e interdisciplinari) che operano secondo programmi e percorsi integrati, tra servizi sanitari (territorio-ospedale) e tra servizi sanitari e sociali”.
 
Una rivoluzione dunque? Beh non si direbbe proprio. In realtà, e come già in molti in quest’ultimo anno hanno già evidenziato, il progetto è praticamente sovrapponibile a quello lanciato nel 2007 della Casa della Salute che veniva definita “una struttura polivalente in grado di erogare in uno stesso spazio fisico l'insieme delle prestazioni socio-sanitarie, favorendo, attraverso la contiguità spaziale dei servizi e degli operatori, l'unitarietà e l'integrazione dei livelli essenziali delle prestazioni sociosanitarie”.
 
Un progetto che, come rivelato dal Servizio studi della Camera, non è che abbia avuto un gran successo (una regione su tre non le ha mai attivate) tranne delle eccezioni come per esempio in Emilia Romagna, da cui è noto il Ministero ha preso spunto.
 
Ma perché non hanno funzionato? A chiarirlo è stata una ricerca di Crea per Fp Cgil, che ha bocciato l’applicazione a livello nazionale del modello denunciando tra l’altro orari di apertura limitati e domenica quasi sempre chiuse servizi differenti tra Regioni e scarsa integrazione socio-sanitaria. Insomma per il report è un modello “poco innovativo e poco attento ai bisogni reali”.
 
Ecco perché il modello delle Case della Comunità proposto dal Governo rischia di essere già superato prima della sua istituzione anche se chi come l'ex Dg della Programmazione del Ministero Filippo Palumbo pensa che le Case della Salute hanno ancora molto da dire pur rilevando come “tutto sia stato poi lasciato alle iniziative regionali che per definizione sono a geometria variabile e agli Accordi Collettivi Nazionali per la medicina convenzionata che non possono da soli farsi carico di un omogeneo livello assistenziale nazionale, soprattutto nella trascorsa fase (lunga) di sostanziale stasi dei loro rinnovi”.
 
Come descritto nel Recovery dovranno essere scritte delle linee guida ma è chiaro che se le Case della Comunità andranno semplicemente ad aggiungersi alla miriade di servizi già presenti sul territorio l’attesa rivoluzione rischia un nuovo insuccesso.
 
Il primo nodo da sciogliere è evidentemente quello più spinoso e quello dove il Ministero e Regioni devono chiarire una volta per tutte: il destino della medicina generale.
 
In quest’anno di pandemia i medici di famiglia sono stati bersagliati da molti attacchi e usati come capro espiatorio dell’evidente incapacità della sanità territoriale di rispondere ai bisogni dei cittadini in epoca Covid. È chiaro che la categoria, salvo eccezioni, ha delle colpe che possono essere riassunte nell’incapacità di uscire dalla logica dello studio del medico di base. Ma è anche evidente che il Ssn ha abbandonato molti di questi professionisti, li ha lasciati senza protezioni, senza indicazioni per mesi e non li ha quasi mai coinvolti nella stesura di protocolli per curare il Covid sul territorio.
 
Sulla diatriba se sia meglio lasciare il rapporto a convenzione o portare i medici di famiglia a dipendenza sulle pagine di questo giornale se n’è discusso parecchio ma è evidente che il progetto delle Case della Comunità (bocciato infatti dai mmg) sembra andare nella direzione della dipendenza per questi professionisti a meno che non si vogliano investire altri miliardi per riempire questi nuovi presidi di personale, risorse che però al momento il Recovery non indica.
 
Ecco perché serve chiarezza per non ritrovarci tra qualche anno a dover raccontare un flop da 4 miliardi di euro.
 
Luciano Fassari

Luciano Fassari

19 Aprile 2021

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