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“Non ci sentiamo i primi della classe. Abbiamo fatto ciò che è parso utile per la salute dei veneti, con tempestività, coraggio e idee chiare. Cosa che ad altri livelli è un po’ mancata”. Intervista all’Assessore alla Salute Manuela Lanzarin 

Per l’assessore del Veneto, una delle Regioni più colpite dall’epidemia, “non è il momento di cercare colpe o errori” né di “intavolare ragionamenti di tipo politico” sulle competenze di Governo e Regioni in sanità. Rivendica però l’azione decisa della Giunta e ribadisce: “La sanità va costruita per il cittadino come un abito su misura” perché “le Regioni hanno caratteristiche diverse”. E tra le priorità, a emergenza finita, cita la revisione e il rafforzamento dei parametri del DM 70 sui posti letto e di “tutto l’ambito dell’assistenza e dell’integrazione territoriale”

di E.S.
09 MAG - “Che esista un ‘modello covid Veneto’ può anche essere, come dimostrano il caso di Vò e la strategia dei tamponi (già oggi ben oltre 300 mila) poi divenuta nazionale e internazionale. Ma non ci sentiamo i primi della classe. Stiamo solo facendo ciò che ci pare più utile per la salute pubblica e i cittadini”. Parla così l’assessore alla Salute del Veneto, Manuela Lanzarin, a cui abbiamo chiesto, in questa intervista, una riflessione su quanto emerso dall’esperienza coronavirus in termini di capacità di risposta del Ssn.
 
Ma pur sostenendo che "non è il momento di cercare colpe o errori” o di “intavolare ragionamenti di tipo politico” sull’assetto della sanità, non dimentica, l’assessore, di ribadire la sua posizione in merito alla necessità di maggiore autonomia regionale in materia sanitaria. Per il momento, però, la priorità resta la battaglia al coronavirus “e tutte le energie devono indirizzarsi sulla prevenzione e le cure”.

Assessore Lanzarin, quale bilancio possiamo trarre a questo punto dell’epidemia?
Il Veneto ha saputo affrontarla con tempestività, coraggio e, mi lasci dire, con le idee chiare, cosa che ad altri livelli è un po’ mancata. La decisione coraggiosa del Presidente Zaia di chiudere Vò Euganeo e attuare la strategia dei tamponi (non si dimentichi che quando iniziammo fummo coperti di critiche, dall’OMS fino all’ultimo “esperto” di salotto televisivo).

Oggi l’esperienza di Vò è diventata un case history a livello internazionale, anche per  l’immediata chiusura dell’ospedale di Schiavonia dove ci fu il primo caso e l’allestimento fuori da ogni ospedale delle tende della Protezione Civile per un triage separato per i pazienti covid, onde evitare la diffusione di contagi nei pronto soccorso. Ci siamo difesi bene, con le unghie e con i denti, grazie al team di luminari ai quali ci siamo appoggiati: Palù, Plebani, Lippi, Crisanti, l’inventore della strategia dei tamponi, del secondo giro di verifiche a Vò dopo aver scoperto 66 positivi che non sapevano di esserlo, e di una ricerca appena partita e unica al mondo, che porterà a studiare anche la sequenza genetica nella popolazione di Vò per capire tante cose che ancora non sappiamo sul rapporto tra il virus e il corpo umano.

Alla strategia dei tamponi abbiamo poi affiancato quella dei kit rapidi e dai test sierologici attraverso un vero e proprio esame del sangue. Sul piano ospedaliero abbiamo raddoppiato le terapie intensive, da circa 450 a circa 900, riuscendo così a non andare mai in crisi di posti; registriamo un bel dato, che ci dice che solo l’1,3% degli operatori sanitari si è contagiato e che, quindi, si è riusciti a proteggere bene i nostri angeli in camice. Piangiamo comunque più di 1.500 morti e questo vi dà la dimensione della terribile gravità di questa situazione.

Si può parlare di un modello Covid del Veneto? E se sì, in cosa si differenzia da quello di altre Regioni come la Lombardia o l’Emilia Romagna?
Non mi faccia fare paragoni tra Regioni, perché non stanno in piedi. Come abbiamo sempre sostenuto, la sanità va costruita per il cittadino come un abito su misura. Le Regioni hanno caratteristiche diverse come scelta organizzativa, tipologia territoriale, realtà sociale. Quello che va bene da noi potrebbe essere inutile o dannoso altrove. Che esista un “modello covid Veneto” può anche essere, come dimostrano il caso di Vò e la strategia dei tamponi (già oggi ben oltre 300 mila) poi divenuta nazionale e internazionale. Ci fa piacere, ma non ci sentiamo i primi della classe. Stiamo solo facendo ciò che ci pare più utile per la salute pubblica e i cittadini.

Per questo abbiamo già affrontato la fase 2, ad esempio con un manuale per la sicurezza sanitaria di lavoratori e frequentatori della aziende e con le linee guida per la riapertura dei servizi sanitari ordinari in tutti gli ospedali. Pensi che siamo già al lavoro sulla fase 3, quella che prevede l’ipotesi, da più parti paventata, di un ritorno del virus tra l’autunno e l’inverno.

Il Veneto ha avviato tra i primi diverse sperimentazioni di farmaci off label per la terapia del Covid. Quali sono i risultati al momento?
La scelta fatta fin dal primo giorno dal Presidente Zaia è stata quella che il Veneto si candida sempre a ogni tipo di sperimentazione, perché questo tipo di ricerca ci porterà, in un futuro spero non lontano a individuare cure sempre più incisive. Sono tutte sperimentazioni che stiamo seguendo giorno dopo giorno, ma è passato ancora troppo poco tempo per dire se e quanto funzionano.

Le Rsa sono state un anello debole della catena assistenziale. Pensa che, al di là di eventuali responsabilità di singole strutture dove sono in corso apposite indagini, il problema stia anche nella modalità di organizzazione di queste strutture, oggettivamente non preposte per affrontare una pandemia di questa portata? Può essere l’occasione per tornare a investire maggiormente nell’assistenza domiciliare?
Cominciamo col dire che Ospiti e dipendenti delle case di riposo del Veneto hanno la priorità, assieme agli operatori sanitari degli ospedali,  nella campagna di test a tappeto intrapresa da Regione, Ulss e Università di Padova in tutto il territorio veneto. Sappiamo che le persone più anziane e più fragili sono quelle maggiormente esposte al rischio di contagio, per cui – oltre ad aver dato precise disposizioni per la gestione igienico-sanitaria della strutture e il trattamento di eventuali casi sospetti già con le circolari del 6 e del 16 marzo scorso. Sicuramente da questa esperienza emerge come queste strutture siano state  totalmente dimenticate dal livello nazionale (terra di nessuno,  un po’ competenza del Ministero della Salute e un po’ di quello delle Politiche Sociali) e debbano invece sempre più avere una parte sanitaria forte e strutturata e diventare prioritarie nell’agenda nazionale del welfare.

Non a caso, la Regione ha espressamente programmato che tutti gli operatori e gli ospiti siano sottoposti a tampone. Inoltre, è stato previsto, in via tassativa, che tutte le strutture residenziali del Veneto possano accogliere e inserire nuovi ospiti solo in presenza di attestazione di negatività al virus. Il primo giro di tamponi si è già concluso (e il secondo è già partito) con esiti confortanti: al 27 aprile nelle case di riposo del Veneto risultavano contagiati “solo” il 7% degli ospiti e il 3,6% degli operatori.

E più in generale pensa che da questa esperienza emerga la necessità di rivedere gli attuali assetti della sanità sia a livello nazionale che regionale?
Trovo intempestivo intavolare ragionamenti di tipo politico in questo momento. Chiunque lo faccia (e più d’uno l’ha fatto) sbaglia. Le competenze delle Regioni in sanità sono nella Costituzione e se qualcuno vuole cambiare, parli meno e tenti (se ci riuscirà) di cambiarla. Non ho mai commentato, e mai lo farò, i sistemi sanitari delle altre Regioni. Quello del Veneto ha dimostrato in più occasioni di funzionare, al punto che, in piena emergenza coronavirus, il Centro Gallucci di Padova del Professor Gerosa ha realizzato il millesimo trapianto di cuore della sua storia. Di certo, a emergenza finita, saranno da rivedere e rafforzare i parametri del DM 70 che fissa il numero di posti letto per abitanti e  tutto l’ambito dell’assistenza e dell’integrazione territoriale.

Stiamo entrando nella Fase 2, condivide l’impostazione del governo nazionale per una riapertura molto soft e per gradi? Pensa si possa “osare” di più e che ogni Regione debba avere l’opportunità di decidere da sola?
La riapertura è ormai una stringente necessità economica e sociale. Va fatta con buon senso, che non significa lentezza. Significa che tutti dobbiamo imparare a convivere con il virus, a rispettare le regole basilari, come indossare la mascherina, che copra sia bocca che naso, tenere rigorosamente il distanziamento, igienizzare di frequente le mani.

Il sistema sanitario di certo non abbasserà la guardia, proseguiremo e amplieremo fino a 30 mila al giorno i tamponi, i posti letto attivati in più non verranno smantellati, proseguiremo il monitoraggio e l’assistenza nella case di riposo, per le aziende abbiamo realizzato un manuale di sicurezza estremamente approfondito. In Veneto è stato fatto tutto il necessario per ripartire in sicurezza. Di certo più ampia sarà la riapertura quanto più i dati epidemiologici ci diranno si può. Ogni decisione, comunque, non prescinderà dal parere dei nostri scienziati.

E infine, pensa siano stati commessi errori in questa prima fase? E come pensa dovremmo attrezzarci per quella che ormai tutti definiscono come “convivenza con il virus” in attesa di una cura o di un vaccino?
Ripeto, non è il momento di cercare colpe o errori. Arriverà il tempo anche per fare un bilancio complessivo, ma ora tutte le energie devono indirizzarsi sulla prevenzione e le cure.

Per me la parola d’ordine per attrezzarci è “buon senso”. Buon senso nell’applicare e rispettare fino in fondo le regole di sicurezza, buon senso nell’affidarsi ai pareri della scienza, buon senso nel rafforzare le buone pratiche, buon senso nel non politicizzare ogni situazione.
 
Intervista raccolta da Endrius Salvalaggio

09 maggio 2020
© Riproduzione riservata

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