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Cure primarie. Nessuna riforma se non cambia la “convenzione”

di Ivan Cavicchi

La convenzione con i medici di famiglia prevede sulla carta tutto il necessario per cambiare il mondo della sanità, ma non lo cambia. Anzi da quel che si capisce crea problemi. Altrimenti non si spiegherebbe la ragione per la quale non facciamo altro che parlare di riformare le cure primarie

16 LUG - Mi ha fatto riflettere la proposta Cgil sulla riforma delle cure primarie. La proposta è interessante ma non ha niente di rivoluzionario se intendiamo per rivoluzionario il capovolgimento  di un sistema. Allora perché definirla addirittura una “proposta shock”? Probabilmente lo è ma  solo se si prendono in considerazione le sue ricadute sugli storici interessi in gioco, soprattutto dei supermassimalisti, dal momento che questi ne risulterebbero ridimensionati.
 
Vediamola: abolizione della guardia medica, trasformazione di 13mila professionisti in medici di medicina generale a tutti gli effetti, abbattimento del massimale di assistiti a 1000 per i medici di famiglia, considerando che il 23,7% ha in carico oltre 1500 assistiti. Si tratta di  poter disporre di  59mila medici e dare corpo  ad una rete assistenziale funzionante per 24 h e 7 giorni a settimana. Onestamente non mi sembra una proposta da snobbare. Essa è una onesta proposta di “ottimizzazione”, come ha precisato la stessa Cgil, quindi un'idea tipicamente marginalista.
 
Marginalismo” viene da “valore marginale”, che per gli economisti  è qualunque rapporto tra due variazioni, tale che al numeratore sia la “variazione effetto”  e al denominatore la “variazione causa”. Il senso della proposta Cgil può essere riassunta da questo esempio: supponiamo che con 10 medici di medicina generale si producano 300 visite domiciliari alla settimana e che con 12 medici se ne producano 350, l’incremento di 50 visite è un effetto derivante dalla causa di un incremento di 2 medici. Il rapporto 50/2 è il valore marginale e precisamente la produttività marginale del lavoro della medicina generale.
 
Questo tipo di ragionamento è alla base di tutta la politica di razionalizzazione di questi anni. Ma allora perchè di fronte alla proposta di ottimizzazione della Cgil il professor Maso scrive che essa causerebbe “la fine del medico di famiglia” e perché egli teme “un sistema di erogazione delle cure primarie frammentato e ancor più burocratizzato”? Mi è sembrato di capire  che la parola chiave per comprendere  tali preoccupazioni sia “liberalità”. Egli non senza ragione si lamenta che il sistema è oppresso da “una miriade di norme illiberali” e teme, a torto o a ragione, che la proposta Cgil non faccia altro che aggravare la situazione. Il professor Maso propone quindi un decalogo, a mio parere del tutto condivisibile: accreditare la qualità professionale, parità con le altre specialità, deburocratizzazione della professione, libertà organizzativa, abolizione dei massimali, remunerazioni in base ai risultati ecc.
 
La proposta esce dall'approccio marginalista e pone l'accento su  un  cambiamento più radicale del sistema delle cure primarie nel tentativo  di restituire alla figura del medico le caratteristiche, secondo lui, perdute della professione liberale. Non c'è dubbio che ottimizzare non è liberalizzare. Ma liberalizzare, immagino che il professor Maso ne sia consapevole, implica che si metta in discussione  lo schema attuale della convenzione che contrattualmente resta un ibrido tra dipendenza pubblica e libera professione.
 
Se si restasse semplicemente nelle sue logiche vigenti l'esito sarebbe quello di accrescere i benefici della libera professione ma senza le contropartite della dipendenza pubblica quindi aggiungendo a libertà  altre libertà. Per avere delle contropartite non si tratta tanto di spostarsi sul terreno del contratto pubblico, perchè sacrificherebbe troppo la parte della libera professione, bisognerebbe piuttosto fare come per i taxisti o come per le piante organiche delle farmacie, cioè liberalizzare in qualche modo le convenzioni e pagare i medici di famiglia in base a criteri diversi da quelli attuali.
 
In pratica si tratterebbe di ripensare lo scambio tra lavoro e risultati  accettando l'idea che quella transazione ibrida definita “convenzione” oggi  va  bene ai medici ma non alla sanità. Per cui bisogna rifare un accordo che vada bene tanto ai medici che alla sanità. Ma qualsiasi cambiamento  per essere accettato deve dare prima di tutto ai medici più vantaggi che svantaggi. Altrimenti perché cambiare? O almeno il gioco deve essere a somma positiva per tutti. Ebbene si tratta di fare in modo che il medico guadagni di più, non di meno, ma garantendo migliori cure con minori costi.
 
Oggi la convenzione prevede sulla carta tutto il necessario per  cambiare il mondo della sanità, ma non lo cambia. Anzi da quel che si capisce crea problemi. Altrimenti non si spiegherebbe la ragione per la quale non facciamo altro che parlare di riformare le cure primarie. Forse c'è qualcosa nella convenzione che non funziona. Forse per cambiare il sistema delle cure primarie bisognerebbe cambiare la convenzione. Tra convenzione e cure primarie forse esiste quanto meno una relazione.
 
La mia idea reinterpretando Sraffa è che si possa assegnare al medico di medicina generale oltre che una retribuzione di base un plus valore calcolato sulla base almeno di tre variabili:
1) riduzione delle antieconomicità del sistema;
2) ridefinizione profonda tanto del medico di medicina generale che della medicina generale cioè del modo di curare;
3)superamento delle diseconomie tipiche della contrapposizione territorio ospedale, cure primarie, specialistiche, ospedaliere.
 
Quindi non dei supermassimalisti ma dei superprofessionisti. Non biasimo chi come la Fimmg difende legittimamente i propri interessi appoggiando persino decreti demagogici come quello Balduzzi. Finché dura perché no? Ma ho la sensazione che la sua storica intoccabilità prima o poi per tante ragioni intuibili sia destinata a finire.
 
Ivan Cavicchi

16 luglio 2013
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