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Infermieri. Perché la logica del “Patto tra le professioni” rischia di fallire

di Ivan Cavicchi

Ministero e Regioni hanno scritto una proposta per la definizione di nuove competenze per gli infermieri, predefinendo il percorso istituzionale che prevede l'esame "separato" delle categorie interessate. Un grave errore. E’ come buttare benzina sul fuoco

17 APR - C’era da aspettarselo.”La proposta di accordo Stato-Regioni”sulle competenze degli infermieri, ha suscitato significativi dissensi da parte dei medici. Saverio Proia  lancia l’idea di un “patto tra  professioni”. Ma un “patto” si fa convocando prima tutte le professioni, proponendo loro una ipotesi di lavoro per poi definire tutti insieme le condizioni politiche e culturali della proposta.

La “non politica” (non l’anti-politica) ha preferito la strada burocratica della forzatura: funzionari del ministero e delle regioni, hanno scritto una proposta, predefinendo il percorso istituzionale che essa dovrà fare, sottoponendola nel frattempo, in modo separato alle categorie interessate. Un grave errore. E’ come buttare benzina sul fuoco.
Ma, al di là del metodo, qual è la logica della proposta? Si parte da tre presupposti: il primo è che esiste una normativa sulle professioni sanitarie, ma senza spiegare né le ragioni serie della sua inconseguenza né quelle del conflitto che questa normativa ha innescato; il secondo è un ragionamento economicistico, che  non è sfuggito a Troise su QS di ieri, secondo il quale valorizzare le professioni  sanitarie ci farà spendere meno rispetto ai  medici che costano di più, il terzo è una maldestra razionalizzazione sul  blocco del turn over, i medici caleranno di numero  per cui  sorge la necessità di compensare dando più competenze alle altre professioni sanitarie.

Personalmente considero questo ragionamento un perfetto esempio di “pensiero debole”. Ma  a parte questo, sono colpito dal suo candore sia nei confronti dei medici che nei confronti degli infermieri. Per i medici ci viene spiegato che si tratta di liberare in modo esteso il “potenziale operativo” di alcune professione a scapito  di altre, che il tempo clinico del medico sarà meglio utilizzato, e che alla fine sarà lui il vero beneficiario dell’operazione. Ma scherziamo? Mai come in questo momento, il medico, soprattutto per colpa sua, è delegittimato, con una crisi di identità senza precedenti, con sulle spalle una “questione medica” che fa paura per la sua complessità, dentro aziende che ne hanno fatto il “problema”per antonomasia.
 
Ma gli infermieri non sono trattati meglio. A prima vista la proposta sembra tutta a loro favore, in realtà, a me pare, essa è completamente fuori linea con l’ultimo congresso Ipasvi tenutosi recentemente a Bologna. Anna Lisa Silvestro ha detto chiaramente che loro non vogliono essere “mini medici”, ma sviluppare una unicità e specificità professionale  ad ogni livello e sotto ogni aspetto.
La proposta del tavolo ministero-regioni, al contrario si riduce ad un trasferimento di competenze per lo più tecniche dal medico all’infermiere. Il candore diventa  sovrano nel momento in cui si dice: che per restituire centralità al medico bisogna dare più competenze alle altre professioni; che l’attribuzione di competenze  è concepita ”senza che venga meno la titolarità” dei medici, quasi a reintrodurre  dalla finestra ciò che la normativa per gli infermieri ha buttato fuori dalla porta ovvero “l’ausiliarietà”.

Definire le professioni sul rapporto profilo professionale/competenze è davvero un rottame di altri tempi (vi ricordate il 761?); oggi abbiamo bisogno, sia per ragioni sociali che per ragioni economiche, di un nuovo genere di operatore in sanità, che nel mio ultimo lavoro ho espresso nel passaggio dal “compitiere” “all’autore” (I mondi possibili della programmazione sanitaria. Le logiche del cambiamento. Mc Graw Hill 2012).
Basta mettere zizzania tra le professioni. Si pone  una grande questione di coevolutività delle professioni. Bisogna smetterla di  pensarle in modo tayloristico, quindi con le logiche divisionali dei compiti e delle competenze, dobbiamo parlare il linguaggio dell’impegno professionale, delle qualità soggettive, si tratta di ripensare le cose nella complementarietà e nell’interconnessionalità. La sanità è una impresa di gruppo, è il gruppo che deve coevolvere in tutte le sue componenti in riferimento a nuove concezione di convenienza sociale ed economica del lavoro quindi a nuove organizzazioni. E’ sul terreno dell’organizzazione del lavoro che si trovano le soluzioni, non rubacchiando compiti un po' qua e un po là.
Ma il grande salto da fare è ammettere due cose: il lavoro in sanità  oggi è tarato su modelli  e su organizzazioni ampiamente regressivi soprattutto nei confronti della società che cambia e che alla fine tradiscono problemi di profonda antieconomicità sovraccaricando i costi produttivi del sistema con altri  costi dovuti a pessime transazioni tra società e sanità (contenzioso legale, medicina difensiva,opportunismi professionali, ruberie di ogni tipo ecc). Dobbiamo risolvere il problema dell’intrinseca antieconomicità del lavoro, non alimentare i conflitti tra professioni mettendole in competizione.
 
Le professioni non saranno mai appropriate se prima non risolveranno i loro anacronismi di fondo sia nei confronti della società sia nei confronti  delle risorse. E’ cambiato tutto, la sanità ha fatto tante riforme, ma gli operatori in generale sono sempre quelli. Anche  gli infermieri che ancora oggi  sono impiegati come se nulla fosse successo. Infine: non si risolvono i problemi degli operatori, quindi del loro impiego, se non si risolvono contestualmente i problemi dell’azienda. E’ vano ridefinire le professioni e rimetterle dentro contesti che hanno dimostrato di non saperle impiegare per le loro potenzialità, e soprattutto che le hanno sempre considerate un costo da ridurre. Contenitori e contenuti devono cambiare insieme.

Ivan Cavicchi

 

17 aprile 2012
© Riproduzione riservata

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