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Gli anestesisti e il “principio di realtà”

di Bruno Ravera

13 MAR - Gentile Direttore,
desidero intervenire nel dibattito provocato dal recente documento della Siaarti che “tende a rendere espliciti i criteri di allocazione delle risorse sanitarie in una condizione di una loro straordinaria scarsità” (come l’attuale!). Vorrei preliminarmente esprimere la mia completa solidarietà ai colleghi anestesisti rianimatori, a tutti i colleghi e al personale sanitario che stanno dando un esemplare ed unanimamente apprezzato impegno professionale, che in molti casi arriva fino ad abnegazione ed eroismo (non è retorica, a cui sono allergico, ma realtà).
 
Basti vedere quanti di loro sono contagiati e qualcuno, ultimo il Presidente dell’Ordine dei Medici di Varese, Roberto Stella, ha sacrificato la vita.
Sono un ex Primario di Cardiologia in età veneranda (90 anni) e quindi dovrei essere portato ad una sorta di solidarietà diciamo così anagrafica per i malati più anziani, ma non è così.
 
Dico subito che mi hanno colpito, e quindi condivido in pieno diversi interventi, anche se avrei evitato toni talvolta un po’ sopra le righe. Potrei fermarmi qui, ma mi consenta qualche altra considerazione. Vorrei porre rudemente un problema, con parole non sfumate ma chiare.
 
Se vi sono 10 posti letto in terapia intensiva (leggi Centri di rianimazioni) e gli ammalati, tutti bisognosi di assistenza sono 20, che si fa?
E’ inutile girarci intorno. Si possono aumentare i posti letto di terapia intensiva. Difficile ma possibile. Si possono acquistare con procedure eccezionali attrezzature per la rianimazione. Possibile (anche se c’è da augurarsi che qualche procura non ravvisi l’inosservanza delle norme che regolano gli appalti). Ma il personale specializzato? Pensare che basti assumere professionisti certamente validi e preparati ma non necessariamente esperti in rianimazione, equivale a considerare il medico come una figura interscambiabile, una sorta di impiegato all’anagrafe, cui va ovviamente il nostro rispetto.
 
E’ il dramma che si pone, per esempio, quando arriva un cuore o un organo nuovo da trapiantare. A chi si trapianta?
Sono scelte drammatiche ed è altamente elogiabile che una prestigiosa società scientifica abbia riproposto il problema, dando per scontato che si fa tutto il possibile, e talvolta l’impossibile, per assicurare al maggior numero di malati la massima assistenza. Ma se non basta, una decisione deve essere presa tempestivamente. Ma attenendosi a quali criteri?
 
Questo è il punto. I colleghi AR li hanno individuati e indicati in 15 raccomandazioni assumendosene la responsabilità: rendesi necessario porre un limite di età all’ingresso in TI; e non si tratterebbe di compiere scelte meramente di valore, ma di riservare risorse che potrebbero essere scarsissime a chi ha in primis più probabilità di sopravvivenza e secondariamente a chi può avere più anni di vita salvata, in un’ottica di massimizzazione dei benefici per il maggior numero di persone. Io non avrei fatto riferimento al limite di età, ma tutt’al più all’attesa vita che è cosa diversa.
 
Non si tratta di fare una scelta di valore ma di rispettare il principio di realtà. Si considera valido il first-come, first-served che è fonte di gravi iniquità? Ricordare Don Milani: “Non vi è nulla di più iniquo che fare parti eguali tra disuguali”. E’ chiaro che non vi sono malati di serie A e di serie B e che tutti debbono essere curati. Ma quando non è possibile?
 
Quello che si propone è in linea col Codice deontologico, tenuto conto che già vieta al medico ogni ostinazione terapeutica (Art. 16). “Il medico non intraprende né insiste in procedure diagnostiche e terapeutiche non clinicamente appropriate ed eticamente non proporzionate”. Io aggiungo che vi deve essere anche il rispetto per le eventuali DAT.
 
Resta comunque un problema.
A parte i vecchi sempre validi broccardi: “ad impossibilia nemo tenetur; necessitas legem non habet” che possono risolvere le perplessità etico-giuridiche individuali, restano, come macigni, altri fatti.
 
L’art. 32 della Costituzione riconosce la salute come un diritto dell’individuo (per la verità l’individuo ha il diritto di ricevere cure adeguate, perché la salute, come la felicità non la possono dare le leggi). Quando si fanno delle scelte e poi arriva la denunzia di un parente, come si risponde?
Si apre così il discorso sui possibili rimedi legislativi e sul capitolo delle responsabilità. Chi ne risponde? In questi tempi è il caso di fermarsi qui e di parlarne un’altra volta come dissero i filosofi ateniesi a San Paolo.
 
 
 
P.S. Mi accingevo a inviare questo articolo quando ho preso visione dell'ultimo scritto del Prof. Cavicchi. Sono naturalmente d’accordo che su questo argomento (io dico, sempre) le discussioni o le polemiche debbono essere condotte nel più assoluto rispetto delle persone; tanto più doveroso quanto maggiore è il dissenso sulle tesi proposte.
 
Detto questo, io vorrei pregare il Prof. Cavicchi (una volta avrei detto Ivan) di dire una parola chiara, almeno per me, su un punto fondamentale.
Su molte cose sono d’accordo, e anche se io non stravedo per i semplificatori (ricordo che Buchard alla fine dell’800 aveva previsto l’irrompere nella storia del mondo dei semplificatori (i vari –ismi che hanno funestato il secolo breve), io vorrei che questa volta il semplificatore fossi tu.
 
Hai citato l’Apocalisse di San Giovanni ed io cito Matteo (non quelli di oggi, naturalmente) quando Gesù dice: sia il vostro parlare si si, no no. Il di più viene dal maligno. E allora ti chiedo e mi scuso per la ripetizione. Nel caso in cui in ospedale vi fossero 10 posti letto di terapia intensiva e 20 ammalati, in condizioni gravissime (anche se è molto difficile fare una scala precisa di gravità), dopo aver esperito naturalmente tutte le possibilità, che fare? Bisogna scegliere Hic rodus – hic salta. La Siaarte, che come te io stimo, ha detto la sua. La tua qual è?
 
Bruno Ravera
Primario emerito di Cardiologia e già Presidente Omceo Salerno

 

13 marzo 2020
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