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Spending review. Cavicchi: "Quei primari di troppo che non dovevano essere promossi"

di Ivan Cavicchi

E' solo un esempio dei costi occuilti del consociativismo che una seria revisione della spesa sanitaria potrebbe finalmente far emergere. Il rischio di riproporre la logica dei tagli lineari, c'è. Ma la colpa è di chi si è sempre opposto al cambiamento e degli interessi corporativi e clientelari

16 MAG - Come una invereconda “macchina della verità” la spending review mette tutti in mutande. Essa ci dice che le potenti Regioni, nessuna esclusa, che avrebbero dovuto e  potuto fare non hanno fatto un granché, ci dice di burocrati aziendali inefficienti sensibili alle ragioni del clientelismo (su “la Repubblica” il presidente della Fiaso ci ha spiegato senza alcun imbarazzo, circa i primari in esubero, che si è cercato “di accontentare le persone più che organizzare in modo opportuno gli ospedali”, sic!).

Con la spending review vengono a galla i costi occulti del consociativismo in particolare quello antico e mai sopito tra gestione e politica e tra politica e sindacato. Se è vero che vi sono tremila primari di troppo c’è da chiedersi: chi ha pagato socialmente questo costo? Come è stato possibile nominare primari che non servivano? Chi ha autorizzato queste assegnazioni? Come sono  state giustificate formalmente? E a cosa sono serviti i ripetuti patti per la salute, i piani di rientro, l’appropriatezza, la razionalizzazione di questi anni? Forse varrebbe la pena preoccuparsi non solo dei costi in esubero della sanità ma anche di chi ne è stato responsabile e magari farsi risarcire e sancire una volta per tutte formalmente  l’incompatibilità tra clientelismo  e bene comune. Come si fa a non pensare che dietro ai primari superflui  non vi siano state operazioni di consenso politico o di lottizzazione? Ma come nascono i “primari soprannumerari”?
 
Tutto inizia quando incautamente la riforma ter del 99 (art 15 comma 1) d’accordo regioni e sindacati, istituì la “funzione unica”, cioè mettendo la dirigenza in un unico ruolo e facendo tutti dirigenti. Alla contrattazione collettiva si demandò la definizione di criteri ai quali i direttori delle aziende si sarebbero dovuti attenere per decidere  l’assegnazione del  trattamento economico accessorio. Per dare a tutti questo trattamento accessorio non restava che  frantumare l’organizzazione del lavoro in tante unità semplici o complesse e assegnare a tutti i dirigenti qualcosa anche di minuscolo. Se “un generale almeno un cannone”, allora “tanti cannoni per tanti generali”. In tempi davvero non sospetti, era il 2005, nel mio Libro bianco sulle aziende, ragionando sulla riforma ter denunciavo il rischio di “adattare l’organizzazione del lavoro alle esigenze di “ruolo” degli operatori e non il contrario, quindi facendo dell’organizzazione del lavoro la giustificazione del riconoscimento delle responsabilità” (pag. 172). Ogni volta che mi capitava di entrare in un qualsiasi ospedale in qualsiasi parte dell’Italia, la prima cosa che facevo era di leggere le targhette fuori dalle porte e rendermi conto che quel rischio era ormai una certezza. Ora un comitato di esperti ci dice che ci sarebbero tremila primari superflui. Bene …io sono d’accordo…non mi dispiace togliere un pò di targhette, preferisco di gran lunga tagliare sul clientelismo anziché sui diritti delle persone.
 
Le mie perplessità riguardano semmai l’uso della spending review. Non vorrei che si trasformasse in “un art. 18” che, per ragioni economiche, dismettesse i servizi che servono. Si tratta pur sempre di servizi, in molti casi delicati e importanti, con dei malati da curare. Preferisco, laddove fosse possibile, riorganizzare e riconvertire. Ma per riorganizzare e riconvertire bisognerebbe che i direttori delle aziende facessero esattamente il contrario di quello che hanno fatto fino ad ora: differenziare le funzioni, i ruoli e le responsabilità e adattare, questa volta, l’organizzazione del lavoro alle esigenze dei malati e non i malati  agli interessi dei primari e dei loro sponsor.
La spending review nel fare una radiografia alla quasi totalità della spesa sanitaria inevitabilmente finisce con il fare una radiografia a trenta anni di  amministrazioni clientelari.
 
E il federalismo? Non ho mai visto tanto centralismo finanziario e soprattutto tanta malcelata sfiducia nei confronti di regioni e aziende. La riforma del Titolo quinto della Costituzione sembra svanita. Oggi la spending review, che nel suo furore iconoclasta rischia di riproporre la logica  dei tagli lineari, è la risposta dello Stato (oggi costretto a raschiare il barile per non aumentare l’iva), al non cambiamento, all’invarianza degli egoismi, degli interessi corporativi e clientelari. Dovrebbero essere le regioni, le aziende, i sindacati a mettere in campo politiche serie di lotta all’antieconomicità, senza aspettare di essere sputtanati dalla spending review. L’antieconomicità non è solo primari e unità operative sovrannumerarie, ma è funzione di un bassissimo grado di innovazione del sistema sempre più incapace di rispondere ai bisogni delle persone e ai problemi dell’economia.
Per questo è desolante rendersi conto che i riformatori in pista sono decisamente pochi, a partire da certi economisti della sanità, quelli che senza conoscere veramente le possibilità di cambiamento del sistema, consigliano la politica a dare di meno e a far pagare di più, per non parlare di coloro che dirigono grandi categorie, istituzioni importanti, aziende e servizi, e che oggi  balbettano frasi di circostanza perché spiazzati proprio nelle loro pratiche consociative e nel loro conservatorismo. Se, come dice, Hume, ”vi sono persone che a un graffio del proprio dito preferiscono il crollo del mondo” bè allora sarebbe bene, in nome dell’interesse generale, che queste persone fossero mandate  perentoriamente a quel paese. Non sarebbe “antipolitica” semmai una “antibiotica” necessaria.
 
Ivan Cavicchi

 

16 maggio 2012
© Riproduzione riservata


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