La risarcibilità per morte del feto

La risarcibilità per morte del feto

La risarcibilità per morte del feto
Come riconosciuto dalla Cassazione, la morte del frutto del concepimento appena estratto dal corpo della madre determina tali e tanti aspetti comportamentali e sofferenziali dei due genitori cui è stata inflitta tale prova, da non potersi considerare “danno potenziale” e come tale avulso dalla costante, insanabile, implacabile dimensione del dolore genitoriale, risultando espressione del tutto non conforme alla realtà, ancor prima che al diritto, se differentemente interpretata

I tre principi di diritto affermati dalla Cassazione in una recentissima sentenza avente ad oggetto il danno derivante dalla perdita del feto, per malpractice sanitaria, finora erano sempre stati avvertiti in tutta la loro ampiezza soltanto dai soggetti direttamente interessati, a titolo personale.

Ora anche i giudici ne hanno avuto piena contezza tanto da enunciarli apertamente in occasione di una fattispecie di cui hanno dovuto occuparsi per la richiesta di ristoro del danno da parte dei familiari avanzata nei vari gradi di giudizio fino ad approdare in Cassazione.

Il caso, quello di una primipara, venticinquenne alla 41ma settimana di gestazione, ormai prossima al parto alla quale al PS vennero riscontrati segnali cardiotocografici di allarme e successivamente una perdita di variabilità durante le decelerazioni, sintomo di sofferenza fetale.

Benché gli strumenti avessero indicato una chiara situazione di pericolo, nessun intervento venne eseguito durante la notte e nonostante le ripetute richieste da parte della madre della gestante, soltanto a notte inoltrata seguì il ricovero con diagnosi di sofferenza fetale acuta e, nonostante la puerpera avesse ripetutamente segnalato l’assenza di movimento della bimba nel grembo, soltanto il giorno successivo veniva eseguita una ecografia che evidenziava grave compromissione del feto con conseguente intervento di parto cesareo.

Dopo 30 minuti dalla nascita la piccola morì pur essendo stata sottoposta ad inutili interventi di rianimazione a causa di una gravissima asfissia perinatale.

Iniziata la causa presso il Tribunale, veniva riconosciuta la responsabilità dei sanitari, non già per la perdita del feto, ma, come si legge in sentenza, “della piccola neonata” che comportò il riconoscimento del danno da perdita del rapporto parentale nella misura minima prevista dalle notorie tabelle di Milano (siamo nel 2008 quando erano ancora vigenti, ora notoriamente superate dalla TUN), con la quantificazione in € 165.000 per ciascuno dei genitori accompagnata dalla motivazione che si concretizzava “nella brevissima durata del rapporto parentale e la giovane età dei genitori che, in virtù proprio di ciò erano poi riusciti ad avere altri due figli” ai quali, ovviamente nulla era stato riconosciuto in termini monetari perché non ancora neppure concepiti.

Non così per i nonni ai quali fu riconosciuto il risarcimento di un danno quantificato nella misura di 24.000 euro.

All’impugnazione intuitivamente proposta dalla ASL e dalle Compagnie di assicurazione, la Corte d’appello, pur confermando la posizione assunta dei primi giudici, dimezzava l’ammontare del danno così disposto con una motivazione che riprendeva un precedente di legittimità, ovvero perché ad essere pregiudicata era una relazione affettiva “non già concreta, bensì potenziale”.

Ma i congiunti della bambina, non soddisfatti di quanto disposto perché, a loro avviso, non teneva conto della rilevanza della relazione con il feto, “ossia del fatto che anche con il feto si instaura una relazione parentale vera e propria, e che dunque la sua perdita è fonte di pregiudizi non patrimoniali al pari della perdita di un neonato o di un congiunto”, adivano l’ulteriore grado di giudizio.

Approdata la vicenda in Cassazione, la sentenza ha accolto tale impostazione sull’assunto che oggi può definirsi massima di comune esperienza, grazie all’insegnamento di molte scienze umane, quella secondo cui, di norma, il “rapporto genitoriale viene ad esistere già durante la vita prenatale, per consolidarsi progressivamente nel corso della stessa, a prescindere dal fatto che il feto sia successivamente venuto alla luce”.

Pertanto, “ove l’illecito abbia causato la morte del feto, quella che si produce – in capo ai genitori – è, dunque, lesione di un rapporto familiare (non solo potenziale, bensì) già in essere”.

La morte del frutto del concepimento appena estratto dal corpo della madre determina tali e tanti aspetti comportamentali e sofferenziali dei due genitori cui è stata inflitta tale prova, da non potersi considerare “danno potenziale” e come tale avulso dalla costante, insanabile, implacabile dimensione del dolore genitoriale, risultando espressione del tutto non conforme alla realtà, ancor prima che al diritto, se differentemente interpretata.

Tanto perché, senza l’ausilio di alcun supporto scientifico, è intuitivo che già durante la gravidanza il genitore comincia a viversi come tale, instaurando una relazione affettiva con il concepito, adeguando alla nuova situazione, al tempo stesso attuale ed in fieri, la propria dimensione di vita.

Ancor più per la madre che ne ha già instaurato una di tipo biologico.

Ad essere quindi valorizzato in sede giurisdizionale è stato quel particolare aspetto della sofferenza interiore patita dai genitori ogni volta che, nella perdita di un rapporto parentale (specialmente un figlio) è proprio la dimensione del dolore, assai più che la modifica della propria vita di relazione, a rappresentare l’aspetto più significativo del danno.

È stato, quindi, riconosciuto che anche la tutela del concepito ha un sicuro fondamento costituzionale, come ripetutamente affermato dalla Corte, rilevando in tale prospettiva non soltanto la tutela della maternità di cui all’art. 31, co. 2 della Costituzione, ma anche quanto stabilito dall’art. 2 che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo tra i quali non può non collocarsi, sia pure con particolari caratteristiche sue proprie, la situazione giuridica del concepito.

Viene così dato rilievo alla protezione della vita privata e familiare, in pieno ossequio a tutta la normativa posta a suo presidio (nazionale e non) chiarendo che il tipo di pregiudizio di cui si tratta, rileva nella sua duplice, non sovrapponibile dimensione morfologica “della sofferenza interiore eventualmente patita, sul piano morale soggettivo, nel momento in cui la perdita del congiunto è percepita nel proprio vissuto interiore, e quella, ulteriore e diversa, che eventualmente si sia riflessa, in termini dinamico-relazionali, sui percorsi della vita quotidiana attiva del soggetto attivo che l’ha subita”.

Tanto premesso, allora, i tre principi di diritto enunciati con la sentenza di qualche giorno fa, in tema di responsabilità sanitaria, sono risultati i seguenti:
1) In tema di responsabilità sanitaria, il danno da perdita del feto imputabile ad omissioni e ritardi dei medici è morfologicamente assimilabile al danno da perdita del rapporto parentale, che rileva tanto nella sua dimensione di sofferenza interiore patita sul piano morale soggettivo, quanto nella sua attitudine a riflettersi sugli aspetti dinamico-relazionali della vita quotidiana dei genitori e degli altri eventuali soggetti aventi diritto al risarcimento del danno;

2) In tema di responsabilità sanitaria, la perdita del frutto del concepimento prima della sua venuta in vita, imputabile a omissioni e ritardi dei medici, determina la risarcibilità del danno da perdita del rapporto parentale, che si manifesta prevalentemente in termini di intensa sofferenza interiore tanto del padre, quanto (e soprattutto) della madre;

3) In tema di risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale, il giudice di merito è tenuto ad applicare le tabelle milanesi, utilizzandone i singoli parametri alla luce dei principi in tema di morfologia del danno da perdita del frutto del concepimento, tenuto conto di tutte le circostanze di fatto portate al suo esame, procedendo altresì, tutte le volte in cui sia possibile, all’interrogatorio libero delle parti ex art. 117 c.p.c.”.

Nella sentenza, infine, si legge anche di un contrasto prettamente tecnico/giuridico tra Azienda e Compagnia di Assicurazione che alcun rilievo assume rispetto alla sostanza della vicenda in esame, ben riassunta in un passaggio dagli Ermellini, ovvero che “il vero danno, nella perdita del rapporto parentale, è la sofferenza, non la relazione. È il dolore non la vita, che cambia una persona, se la vita è destinata, sì, a cambiare, ma, in qualche modo, sopravvivendo a sé stessi nel mondo”.

Fernanda Fraioli
Presidente di Sezione della Corte dei Conti
Procuratore regionale per il Piemonte

Fernanda Fraioli

13 Ottobre 2025

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