Mai come quest’anno la discussione sulla sanità pubblica appare polarizzata. E la giornata di ieri con tutte le audizioni degli organismi indipendenti e del Ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti ne è stata la prova lampante.
Da un lato Upb, Corte dei conti, Cnel, Istat hanno lanciato allarmi convergenti: la Manovra non basta a consolidare il Ssn, le risorse sono frammentate e il rapporto spesa sanitaria/PIL è destinato a scendere sotto il 6%.
Dall’altro, il governo e la maggioranza hanno respinto ogni accusa, rivendicando un aumento senza precedenti dei fondi, una rinnovata attenzione al personale sanitario e accusando chi c’era prima di aver provocato i danni.
Il Cnel ha parlato di “definanziamento relativo” e di un sistema che cresce in valore assoluto ma arretra rispetto al PIL.
La Corte dei conti ha confermato che l’aumento delle risorse “consente solo parzialmente di affrontare le criticità del settore”, mentre l’Upb ha sottolineato l’assenza di “una chiara indicazione di priorità” nell’uso dei fondi.
Istat poi ha aggiunto la fotografia sociale: 5,8 milioni di italiani hanno rinunciato a cure o visite nel 2024, quasi due milioni in più dell’anno precedente. Un dato che ha messo a nudo la distanza tra i bilanci contabili e la vita reale dei cittadini.
Quando a fine giornata è arrivato il turno del ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti è stata fornita un’altra chiave di lettura: “Il governo ha sempre destinato risorse aggiuntive alla sanità” e con la nuova manovra “il rapporto spesa sanitaria/PIL salirà al 6,2% nel 2026”. Certamente, con un debito pubblico elevatissimo e un quadro internazionale senza punti di riferimento è innegabile che la manovra non potesse essere ricca, ma è giusto ricordare come ci siano stati anni ben peggiori.
Una linea difesa anche dal presidente della Commissione Sanità del Senato, Franco Zaffini (FdI), che ha parlato di “impegno straordinario” e ha definito “paradossale” che chi ha governato negli ultimi vent’anni accusi oggi la maggioranza di abbandonare i malati.
Sul fronte opposto, il Movimento 5 Stelle ha letto nei dati Istat “la pietra tombale sul fallimentare decreto liste d’attesa”, accusando il governo Meloni di “smantellare il pubblico e favorire la sanità privata”.
Il Partito Democratico ha parlato invece di “bugie del governo”, sottolineando che l’aumento del fondo sanitario è solo nominale e non basta a garantire l’accesso universale alle cure. Per il capogruppo dem Francesco Boccia, “la sanità pubblica resta sottofinanziata e milioni di famiglie continueranno a rinunciare a curarsi”.
In mezzo a questa contrapposizione politica, restano le criticità strutturali denunciate da tutti gli enti tecnici e che sono note da un po’ di tempo: carenza di personale, liste d’attesa interminabili, invecchiamento della forza lavoro, divari territoriali e perdita di attrattività del sistema pubblico. L’Italia, con 6,9 infermieri per mille abitanti e la quota più alta di medici over 55 in Europa, rischia nei prossimi anni una crisi di sostenibilità umana, oltre che finanziaria anche considerando l’inverno demografico in cui siamo sempre più impantanati.
Il vero pericolo è che il definanziamento relativo del Ssn diventi una nuova normalità, un lento scivolamento verso un sistema duale (pubblico per chi non può permettersi altro, privato per chi può pagare) che tutti vedono con timore ma che nessuno riesce a fermare.
Le istituzioni indipendenti chiedono programmazione, visione e priorità. La politica, invece, sembra ancora ferma, come sempre, a scambiarsi accuse.
In questo scenario tutti gli attori della sanità (dal personale ai tecnici e a chiunque vi lavora) sono talmente provati da anni di fatiche, culminate nella pandemia da Covid, che sembrano aver perso anche loro la voglia di dare una sferzata al Ssn, ognuno nel miope tentativo di ottenere qualche briciola per il proprio silos. Ma la sanità, quella reale, fatta di ambulatori, pronto soccorso, anziani da assistere e liste d’attesa, non può più aspettare.
Luciano Fassari