La crisi del servizio sanitario e l’accordo Calabria-Emilia Romagna

La crisi del servizio sanitario e l’accordo Calabria-Emilia Romagna

La crisi del servizio sanitario e l’accordo Calabria-Emilia Romagna
L'articolo denuncia la violazione dei principi costituzionali di eguaglianza e diritto alla salute, con un Servizio Sanitario Nazionale che registra disservizi, disparità territoriali e migrazioni sanitarie miliardarie. L'accordo Calabria-Emilia – definito una "dogana sanitaria" – rappresenta l'apice di questa deriva, introducendo meccanismi che limitano la libera scelta delle cure e tradiscono la solidarietà nazionale, senza affrontare le vere cause strutturali del collasso

La sanità erogata è il peggiore dei mali che la Nazione intera sopporta. Principi costituzionali violati con una leggerezza che non ha eguali. Primi fra tutti: quello dell’eguaglianza (art. 3), quello della tutela della salute quale diritto fondamentale dell’individuo e della garanzia della gratuità per gli indigenti (art. 32). Tutto questo è rappresentativo di un suo decadentismo progressivo, nei confronti del quale la Nazione non scende in piazza come per la Palestina e la persona sopporta quotidianamente le violenze che vengono esercitate nei suoi confronti, sospirando al massimo qualche lamento.

Nel fronte delle istituzioni legislative non si ha modo di scorgere alcuna proposta di riforma strutturale funzionale a cambiare il passo, ma soprattutto ad offrire le soluzioni alle allarmanti priorità.

A fronte di tutto questo il confronto politico si limita sugli incrementi di risorse economiche attribuite al Ssn e nessuno si preoccupa delle cose che non vanno e di proporre i cambiamenti strutturali necessari.

I risultati sono inquietanti:
– Disservizi ovunque, finanche sulla erogazione dei Lea elementari;
– Differenziazioni nelle prestazioni essenziali tali da dividere le nazioni regionali tra paradisi erogativi (invero divenuti anche essi un po’ meno tali, rispetto ad un decennio fa) e inferni terrestri generati a causa di una sanità territoriale vicina all’inesistenza;
– Programmazioni che non ci sono più (dal 2006 non viene più approvato un Piano sanitario nazionale e siamo ancora in attesa del nuovo Piano pandemico);
– Interventi della magistratura ordinaria e contabile per i bilanci fasulli del governo della spesa sociosanitaria, gare inquinate, organici pieni zeppi di amministrativi e vuoti di operatori sanitari;
– AOU inesistenti sul piano giuridico che funzionano come tali eludendo i concorsi pubblici, in violazione dell’art. 97, commi 2 e 4), l’art. 23 del d.lgs. 165/2001, art. 15 ter del d. lgs. 502/1992 e del DPR 484/1997, per favorire nomine primariali autoritative di professori e ricercatori universitari.

A valle di tutto questo, la persona umana (per dirla secondo gli artt. 3 e 32 della Costituzione) ovunque sofferente, perché tradita dall’assenza di prevenzione, dell’assistenza territoriale e non affatto trattata bene sin dalla sua presa in carico nei presidi di spedalità.

Insomma, un Servizio sanitario nazionale che dal 1978, anno della sua istituzione (legge 833), ha fatto passi da gigante, ma all’indietro.

Il suo più grande difetto è la trascuratezza della pianificazione nazionale, con pesanti ricadute e ripercussioni su quelle regionali e delle due province autonome, tali da rendere l’offerta non degna di un Paese civile, che lascia i più poveri allo stato di incapacità di soddisfare la domanda.

Un decisore politico che si rispetti deve pertanto imparare a programmare, dopo una attenta e continua rilevazione del fabbisogno epidemiologico, delle aree di rischio e delle condizioni economiche delle utenze.

Un difetto, quello dell’assenza della programmazione, che alimenta la migrazione passiva dalle regioni meridionali verso quelle del centro-nord, arrivata a dimensioni tali da superare la soglia di 4.5 miliardi di euro.

Un fenomeno che sta diventando persino generativo di opzioni incredibili a concepirsi e ad essere accettate.

Recentemente si è registrato il massimo del peggio, attraverso la formulazione di un accordo bilaterale finalizzato ad attenuare la migrazione passiva dalla Calabria all’Emilia-Romagna, ove quest’ultima ha dato prova di una consistente caduta nella sensibilità solidaristica.

L’accordo bilaterale triennale (2025-2027) tra Regione Emilia-Romagna e Regione Calabria per il governo della mobilità sanitaria e delle correlate risorse finanziarie del periodo (si veda qui articolo del 10 novembre scorso) convenuto ai sensi dell’art. 1, comma 320, della legge n. 207/2024, rappresenta la prova del nove di come vanno male le cose nel Paese. Soprattutto di come anche i bravi sbaglino e di come i non bravi non abbiano voglia alcuna di imparare, navigando a vista con il vento della peggiore presunzione.

L’accordo avrebbe con due obiettivi di fondo:

quello della Calabria di potersi allontanare dalla canna del gas in cui la politica l’ha ridotta da decenni, con una sanità che ha portato i calabresi alla disperazione, con oltre 300 milioni “regalati” alle altre Regioni attraverso la mobilità passiva;
quello dell’Emilia-Romagna di sopportare una mobilitazione attiva di grande portata che, così come dimensionata, impedisce tuttavia (dicunt) di erogare l’ordinario agli emiliano-romagnoli, al netto delle inderogabili esigenze di salute altrui.
Entrambe le Regioni, difettano di disattenzione dall’assumere misure strutturali, di risolvere l’ordinario e di mettere in campo la solidarietà occorrente per assicurare a chiunque la tutela del diritto alla salute.

Quanto all’obiettivo dichiarato in atti di garantire trasparenza, appropriatezza delle cure e parità di accesso alle stesse siamo ben lontani d’avere rintracciato la modalità migliore, per non parlare del sogno di volere così ridurre lo squilibrio storico a danno della Calabria.

I metodi individuati, peraltro, sono quantomeno discutibili sul piano della libera scelta dell’assistito, tanto da essere difficile rintracciare la mente (in)costituzionale che li abbia partoriti. Si introduce infatti una sorta di dogana salutare, dal sapore dei dazi trumpiani, che fissa una sorta di migrazione ai bisognosi di salute contingentata.

Al riguardo, al fine di rientrare nei massimali convenuti nei contratti, ex art. 8 quinquies del d.lgs. 502/1992, si resuscita un interessantissimo istituto ma “ucciso” volontariamente da tempo per salvaguardare i giri d’affari degli erogatori privati. Ciò nel senso di prevedere una riduzione progressiva del rimborso per prestazioni sanitarie, oltre una certa soglia fissata per i budget, per consentire agli erogatori privati accreditati/contrattualizzati di erogare, comunque, le prestazioni afferenti ai LEA per tutti i giorni non festivi dell’intero anno. Una garanzia erogativa per l’utenza e per i SSR di corrispondere solo il budgettato.

Un sistema, questo, raramente applicato seppure disciplinato. In Calabria mai, ove hanno regnato le chiusure indiscriminate delle attività private accreditate appena superato il budget annuo ovvero i pagamenti anche essi indiscriminati, degli extrabudget centomilionari corrisposti indebitamente agli accreditati privati (così come accaduto anche nel Lazio scovati dalla Corte dei conti in sede di parificazione del rendiconto consolidato regionale del 2022-2023).

Ettore Jorio

Ettore Jorio

24 Novembre 2025

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