Nel panorama sanitario mondiale, l'Italia si erge come un'anomalia paradossale: è l’unico paese europeo che sforna più medici che infermieri, nonostante abbia una penuria di ben oltre 100.000 infermieri rispetto alla media europea (8.3 % per 1000 ab), ed un numero di medici in perfetta media europea.
In questo scenario, le Istituzioni hanno di recente dato il loro augusto benestare a un aumento del 6,5% nei posti di medicina, portandoli all'astronomica cifra di 20.867, che supera anche il dato dello scorso anno, mentre l'incremento dei posti per infermieri è stato un misero 2,3%, arrivando a malapena a 20.525
Per fare un esempio in UK, il piano di sviluppo al 2031, prevede la duplicazione dei posti per gli infermieri arrivando a 70.000 anno e, per i medici a 15.000 (partendo dai circa 8.000 attuali): una bella differenza.
Il risultato per noi senza questo tipo di pianificazione? L'Italia si ritroverà a non poter assistere i cittadini, a chiudere interi ospedali, a non aprire case di comunità, non per assenza di medici, ma di infermieri.
Il dato è ancora più allarmante, quando confrontato con le richieste della Conferenza tra Stato e Regioni ai Ministeri, è un deficit di 6.307 posti per infermieri, una riduzione del 23,5%. Questa decisione appare quanto mai discutibile: evidentemente si preferisce a tutti i livelli istituzionali, dominati da presenza medica, non volere comprendere il collasso che si prospetta.
Questo poi, in un momento, in cui gli infermieri sono sempre più stanchi e demotivati ed in molti concorsi, ci sono meno candidati dei posti a bando: sembrano poipreviste risorse minime per gli infermieri per il rinnovo del CCNL , mentre in tanti Paesi si studiano incentivi di migliaia di euro per il solo rimanerein servizio nella stessa Azienda.
Se continua così continueremo invece ad esportare infermieri italiani in Paesi più lungimiranti. Ma chi se ne frega, giusto?
D’altronde, in assenza di dati a supporto, abbiamo raddoppiato il numero di medici in formazione in pochi anni e passiamo il tempo a pensare al numero chiuso dei medici, invece che a ragionare sulle innovazioni trasformative dei servizi sanitari per i cittadini e per gli infermieri.
Nello specifico, in Italia, grazie ai fondi (a debito) del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Next Generation EU), è in corso il potenziamento dell'assistenza sanitaria primaria, che prevede una massiccia presenza di infermieri in ambito territoriale, che non si troveranno e solo parzialmente potranno essere compensati con l’incremento “vero” della libera professione.
Tutto ciò in un contesto che, paradossalmente, ignora il rischio di un futuro surplus di medici, che ove non regolato contribuirà al ritorno della pletora medica ed a mantenere lo status quo nelle relazioni professionali.
È innegabile che in alcuni contesti italiani ci sia una carenza di medici, in talune limitate aree per la medicina generale, nell’area urgenza/emergenza o nelle specializzazioni che offrono poche possibilità di introiti aggiuntivi, mentre in molte altre specialità c'è tanta abbondanza. Su questo si possono cambiare i meccanismi regolativi e incentivanti.
Appare sempre più miope concentrare gli investimenti esclusivamente sulla professione medica, relegando l'infermieristica a un ruolo marginale, come evidenziato anche dalla penuria di professori accademici e dal trattamento riservato ai docenti del SSN, che continuano, in virtù del contorto meccanismo di protocolli di intesa e convenzioni, a lavorare gratis - e senza diritti, altro unicum a livello nazionale.
È anche anacronistico mantenere immutate strutture organizzative e confini operativi tra diverse professioni sanitarie: in più di 80 paesi, gli infermieri prescrivono farmaci, somministrano anestesia, forniscono assistenza sanitaria indipendente e sono il primo punto di contatto con il sistema sanitario.
Ma in Italia? Macché! Meglio restare ancorati al passato come ostriche (o cozze) a uno scoglio!
Per affrontare queste carenze, si propongono le seguenti strategie innovative (attenzione, potrebbero causare turbamenti ai più conservatori e non solo):
Tale sviluppo sarebbe importante per garantire la continuità e ampliare l'accesso ai servizi, soprattutto per gli anziani, anche con l’utilizzo di strumenti digitali e una maggiore attrattività per la professione.
Per garantire la qualità dell'assistenza, è essenziale contrastare talune proposte politiche, purtroppo supportate anche dagli Ordini professionali, di delegare e svalutare le competenze infermieristiche affidandole a personale chiamato "assistenti infermieri". Questa tendenza è in netto contrasto con i trend europei e internazionali, che mirano ad elevare le qualifiche professionali e a garantire sicurezza delle cure.
Ma chi ha bisogno di standard elevati d’altronde? I cittadini di sicuro.
Pur riconoscendo la necessità di avere personale di supporto maggiormente coinvolto in contesti specifici, come l'assistenza a lungo termine, è inaccettabile anche solo pensare di delegare attività infermieristiche a personale deputato e qualificato per altro.
Dulcis in fundo, l'Italia ha già più di 13.000 infermieri e circa 50.000 operatori e professionisti in totale che, grazie a una legge post-Covid, possono esercitare nel settore sanitario senza dover sottoporsi ad alcuna procedura di controllo.
Qualcuno ha intenzione di cominciare a preoccuparsi della gestione di questa situazione?
In conclusione, il paradosso della formazione medica e infermieristica in Italia presenta una sfida unica che richiede un approccio strategico di riforma, da attuare cambiando le modalità di costituzione di tavoli e di punti di ascolto da parte dei decisori che si hanno portato
Si potrebbe tracciare un nuovo corso verso un sistema sanitario sostenibile, inclusivo e centrato sul paziente e garantire salute e benessere dei suoi cittadini.
Oppure vogliamo continuare a rimanere così?
Walter De Caro