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Il reo folle: un sistema in affanno, mancando di idee funzionali e di pratiche trasversali 

di Gemma Brandi

13 MAR -

Gentile Direttore,
a proposito del tema del malato di mente autore di reato, leggo ogni tanto argomentazioni di psichiatri, che non consentono a chi scrive di condividerle: avendo operato per decenni nella Salute Mentale libera e reclusa, la mia visione del problema è sempre stata binoculare e non monoculare. Le visioni monoculari della materia sono di tipo contrapposto e creano un discreto imbarazzo logico, ma una logica c’è in tale apparente illogicità. Provo a spiegarmi.

Trovo, tanto per cominciare, che la vera “contraddizione strategica del sistema” risenta del verdetto normativo contenuto nella Legge 180 nel momento in cui bandì, dalla competenza della nascente Salute Mentale, la cura dell’abuso di alcool e sostanze, dei problemi mentali degli anziani e dei portatori di handicap e, ultimus sed non infimus, delle condotte trasgressive e illecite di stampo psicopatologico. La “purezza” della Psichiatria non sta nell'allontanare da sé i problemi, ma dall'avere estratto dal carcere la sofferenza mentale assumendo la responsabilità di prendersene cura. Si trattò di una davvero GRANDE RIFORMA, che avvenne tra seicento e ottocento in Europa. Ma di questo, gli psichiatri sedicenti riformisti e puristi, non amano parlare, perché, non operando anche all’interno delle strutture penitenziarie e di internamento giudiziario, è stato per loro impossibile maturare convinzioni a tutto campo e in tal modo convincenti. Non chiudendo la porta ai problemi esclusi, avrebbero compreso che la interdisciplinarità/interistituzionalità, cuore pulsante della Legge 180, permette di affrontare qualsiasi problema.

Al polo diametralmente opposto si situano quei medici che hanno operato sempre e solo all’interno della dimensione dell’internamento giudiziario e/o della cura penitenziaria o/e dell’assessment peritale. Capita che costoro suggeriscano, per risolvere la confusione del sistema di cui al titolo, che niente ci sarebbe di meglio da fare che imitare i Paesi western che importarono dall’Italia (a Torino la prima Cattedra di Antropologia Criminale al mondo) il concetto di Psichiatria Forense, facendone un filone a sé. Ma, quei Paesi, che ne sanno della Salute Mentale, che ne sanno della rivoluzione basagliana? Chi ha messo in pratica detto fraterno e innovativo giro di boa è ben consapevole dell’errore che rappresenterebbe una soluzione separatista tra malato di mente buono e cattivo, con due binari che correrebbero paralleli senza possibilità di incontrarsi: questo sì un doppio binario da paventare come portatore di disgrazia. E chi evoca una simile soluzione ardisce a chiedere che gli psichiatri che lavorano nelle REMS e in carcere si associno a tale perigliosa scelta. Non c’è che da confidare nella intelligenza, nella sensibilità e nella lungimiranza dei Colleghi chiamati in causa. D’altra parte, quale diversa proposta ci si potrebbe attendere da chi ha sempre operato in ambiti distinti dalla Salute Mentale territoriale, se non che riproponga quanto appreso in decenni di separato servizio?

E mentre gli psichiatri dibattono, cosa pensano a riguardo infermieri, psicologi, assistenti sociali, educatori, giudici, forze dell’ordine, avvocati, insegnanti, tutti coloro che, nelle loro pratiche lavorative, incrociano il problema? Un dibattito da allargare, senza dubbio. Poi ci sono i parenti delle persone che soffrono con la loro voce dall’interno della sofferenza, quindi i teorici del diritto, ma prima, assai prima di costoro, le teorie che vengono dalle pratiche. Teniamolo bene a mente.

Gemma Brandi

Psichiatra psicoanalista
Esperta di Salute Mentale applicata al Diritto



13 marzo 2024
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