11 febbraio -
Gentile direttore,
la condizione emergenziale in cui versa il nostro Ssn ha responsabilità plurime e ripartibili tra i diversi schieramenti politici. Per anni si è infatti ritenuto che un sistema già slabbrato come il nostro, per le storiche differenze esistenti tra i diversi ambiti territoriali, fosse emendabile attraverso un’operazione di razionalizzazione dell’assistenza ospedaliera. L'idea, non priva di fondamento, era infatti che i piccoli ospedali fossero inadeguati ad affrontare le complessità clinica e che la concentrazione dei reparti in strutture più grandi avrebbe garantito economie di scala ed efficienza allocativa ed assistenziale.
Tutto questo, tuttavia, avrebbe avuto un senso solo a condizione che si fossero create le condizioni per shiftare i casi clinici non acuti verso servizi territoriali riprogrammati per vicariare il presumibile carico assistenziale derivante da una riduzione dei nosocomi e dei posti letto ospedalieri complessivi.
Questo non è avvenuto e al contrario i vari tentativi parziali di riforme sulle cure primarie, tra cui l’inapplicata riforma Balduzzi, hanno mantenuto, peggiorandolo anche a causa delle politiche restrittive sulle assunzioni e della fisiologica riduzione del personale in servizio, lo stato preesistente di erogazione dei servizi totalmente incentrato sugli studi "privati" dei singoli medici di base.
La tragedia del Covid-19 ha drammaticamente evidenziato il fallimento delle cure primarie a causa di un modello assistenziale esistente totalmente inadeguato ad affrontare il carico aggiuntivo di pazienti, le patologie croniche e pluripatologie indotte dal mutato quadro demografico con il continuo aumento della popolazione ultrasessantenne. Elementi questi ultimi che connotano fortemente questo nostro tempo.
Ambiti di intervento assistenziale in cui sono necessari non la semplice monade dell’ambulatorio medico ma servizi attrezzati e altamente integrati tra specialisti delle diverse branche, infermieri, psicologi, fisioterapisti e personale socio-assistenziale.
A questo criticità assistenziale si è aggiunto poi la fine del mito per cui ogni MMG è padrone a casa sua, perché le moderne procedure di controllo della spesa hanno reso il MMG un terminale del SSR che nulla di significativo può fare in termini erogativi o prescrittivi senza adempiere alle complesse, quanto obbligatorie, procedure di accesso ai diversi portali regionali.
E così il giovane MMG, ormai in prevalenza donna, da libero professionista protagonista delle sue prestazioni professionali si è trasformato in un parasubordinato, assimilabile alle finte partite Iva a sostanziale rapporto di dipendenza, dei diversi organi regionali di controllo della spesa senza avere in cambio i vantaggi derivanti dall'essere parte di un contesto organizzativo più ampio. I vincoli regionali e il carico regionale con il tempo sono diventati talmente stringenti che il tempo di lavoro medico effettivo si è ridotto per ogni paziente che ha accesso allo studi a pochi minuti generando burnout e frustrazione nel professionista nonché rabbia nel paziente per le lunghe attese e la mancanza di risposte adeguate.
Caso diverso è ovviamente il caso di quei MMG di lungo corso che abbiano costruito la loro intera carriera sul rapporto di convenzione e sui vantaggi sociali che questo possa prevedere specie per l’accesso ai piani alti della professione rappresentati da ordini professionali, Enpam e Fnomceo. Per la conquista di tali cariche, infatti, la capillare organizzazione dei medici di Medicina generale e degli specialisti ambulatoriali, storici alleati nelle battaglie elettorali, e le accentrate procedure di voto ha consentito sempre a tali componenti professionali di assurgere a un ruolo dominante rispetto alla dipendenza.
Sono dunque le questioni di status sociale e di prestigio personale a rivestire un ruolo dominante nell’attuale discussione sul passaggio a dipendenza dei MMG.
Un indicibile che viene reso, però, più presentabile paventando lo spauracchio che, con il passaggio a dipendenza, i pazienti perderebbero i loro medici di famiglia o resterebbero ancora più deserte le aree più periferiche e sguarnite della regione.
Una vera illogicità in quanto i medici di famiglia a rapporto di dipendenza afferenti a un determinato distretto si dovrebbero fare carico di garantire un'assistenza capillare non diversamente da quanto fanno da sempre gli ospedalieri con i loro turni di guardia interdivisionali/ reperibilità o prestando servizio in più nosocomi.
La politica, dunque, è chiamata a fare una chiara scelta di campo: da un lato la difesa ad oltranza degli ultra-garantiti e gratificati dell’assistenza di base, dall’altro la presa in carico e il sostegno delle nuove generazioni di MMG che vogliono lavorare in equipe, liberarsi dei carichi burocratici e potere contare su altre figure professionali per assolvere ai compiti delle cure primarie con strumenti adeguati.
Questa è la vera questione sul tappeto il resto è un vano tentativo di dissimulare la superiorità di un modello assistenziale obsoleto e fallimentare.
Roberto Polillo, Saverio Proia e Mara Tognetti