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La terza lezione del Coronavirus è che siamo parte della natura

di Carla Collicelli

La pandemia ci ha posto di fronte ad un'altra tempesta inaspettata (vedi i miei due precedenti articoli), di tipo eminentemente culturale: la consapevolezza, drammaticamente esplosa, della necessità di prendere sul serio gli studi di ambito biologico, biomedico e biosociale che da tempo indicano i rischi insiti in uno stravolgimento degli equilibri naturali, senza riscuotere sufficiente attenzione

02 APR - La pandemia che ci ha colpito così duramente ci ha aperto gli occhi di fronte ai rischi globali delle patologie infettive, che ci illudevamo fossero scomparse, o quanto meno relegate nei paesi con livelli di igiene e sanità molto bassi. La pandemia ci ha anche portato a riflettere in maniera nuova sull’organizzazione dei servizi sanitari, sulla necessità di attrezzarsi in maniera preventiva rispetto a simili eventi, ma anche e soprattutto sulla necessità di ripensare il ruolo della medicina del territorio.
 
Una medicina del territorio che a fatica sta compiendo lo sforzo di attrezzarsi per la cura delle patologie croniche e degenerative, a casa o ambulatorialmente, e che ora deve affrontare anche la sfida di una reazione diffusa sul territorio alle epidemie virali, per evitare i rischi delle ospedalizzazioni improprie ed il collasso delle strutture ospedaliere.
 
Ma la pandemia ci ha posto di fronte ad un'altra tempesta inaspettata, di tipo eminentemente culturale: la consapevolezza, drammaticamente esplosa, della necessità di prendere sul serio gli studi di ambito biologico, biomedico e biosociale che da tempo indicano i rischi insiti in uno stravolgimento degli equilibri naturali, senza riscuotere sufficiente attenzione.
 
È il dibattito sul cosiddetto Antropocene, termine poco conosciuto fino a poco tempo fa, benché coniato già nel secolo scorso in ambito biologico e chimico, e che oggi ci appare in tutta la sua pregnanza rispetto al tentativo di capire come sia possibile che nelle aree geografiche più sviluppate del globo esplodesse una emergenza virale. Secondo questo approccio infatti le emergenze virali sono il portato di un predominio della specie umana sul resto del globo.
 
Uno dei contributi più recenti e più chiari, per tentare di comprendere i rischi per la specie umana dell’iper sfruttamento del pianeta ed in particolare delle sue risorse naturali, è il libretto pubblicato da Ilaria Capua nel 2019, e intitolato Salute circolare, con il quale si riepiloga la storia del rapporto tra medicina ed ambiente nei secoli. È difficile immaginare un ragionamento più esplicito e comprensibile a tutti sul fatto che l’ambiente non è qualcosa di esterno a noi ma “in realtà ci siamo immersi, fa parte di noi”, e che quindi se trattiamo così male “il nostro mega sacco amniotico”, se avveleniamo, invadiamo e consideriamo come nostra proprietà esclusiva l’ambiente, non dobbiamo meravigliarci se poi la nostra sopravvivenza viene messa in pericolo.
 
Ma non mancano nel corso della storia degli ultimi decenni molti altri contributi, sviluppati nell’ambito di discipline diverse, che hanno tentato di far capire che la salute è un processo sistemico che include il benessere della natura e del mondo animale. Il riferimento è ad esempio agli studi sociologici del Censis negli anni ’80 sulla salute in Italia, nell’ambito dei quali veniva proposto il concetto di “sistema psico-socio-ambientale” per definire la realtà evolutiva e integrata della salute umana.
 
Ma il riferimento è anche ad alcuni esperti di etica ambientale e urbana, come Corrado Poli (Politica e natura, 2017), che hanno indicato il problema ambientale come un problema politico di importanza bioetica fondamentale. L’approccio alla questione che va sotto il nome di green washing, vale a dire l’introduzione nel sistema produttivo e urbano di alcuni interventi di mitigazione dell’inquinamento e della distruzione ambientale, non è sufficiente, secondo questa linea di pensiero, a promuovere una sostenibilità effettiva e globale dello sviluppo umano e delle sue potenzialità.
 
Ma anche filosofi e sociologi teorici particolarmente attenti hanno più volte richiamato l’attenzione, alla fine del secolo scorso e a inizio di quello attuale, sui rischi per la specie umana della distruzione dell’ambiente fisico, naturale ed animale. Certamente lo ha fatto e continua a farlo Serge Latouche, economista e filosofo, fondatore del Movimento anti utilitarista nelle scienze sociali (Mauss) e sostenitore del principio della decrescita come approccio anti economicistico allo sviluppo.
 
Ma lo stesso Jean Baudrillard, filosofo e sociologo tra i più importanti degli ultimi decenni, nel lontano 1992 scriveva nel suo L’illusione della fine che “il peggio non è che siamo sommersi dai rifiuti della concentrazione industriale e urbana bensì che noi stessi siamo trasformati in residuati”. A Baudrillard era chiaro già allora che “la specie umana, mirando all’immortalità virtuale (tecnica) (…) sta perdendo la sua particolare immunità”.
 
Come tutti questi autori, ed altri ancora, sottolineano, ciascuno dal proprio angolo di visuale, il problema è allora principalmente quello di guardare al futuro con lungimiranza e di confrontarsi tra discipline diverse e relativi studi e risultati. Tornando alle parole di Ilaria Capua, dobbiamo superare la iper specializzazione e la separazione tra ambiti di studio diversi, come avviene nel Centro da lei diretto in Florida (One Health Center of Excellence), che si prefigge proprio lo studio della salute di tutte le specie e dell’ambiente naturale nel suo insieme. E dobbiamo mettere a frutto le enormi possibilità scientifiche e tecniche che la specie umana è stata capace di sviluppare per la salute dell’intero pianeta. Solo così potremo promuovere anche la nostra di salute.
 
Carla Collicelli
CNR-ITB Roma
 

 

02 aprile 2020
© Riproduzione riservata


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