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Vaccini Covid. Italia dai primi posti in Europa per numero di dosi somministrate al fondo della classifica. Ecco perché 

di Giovanni Rodriquez

Nela prima fase della vaccinazione il nostro Paese svettava in classifica per numero di vaccinazioni rispetto agli altri Paesi UE. Poi siamo scivolati verso il fondo della classifica in poche settimane. L'arrivo del vaccino di AstraZeneca con la prima indicazione per una sua somministrazione fino a 55 anni ha scompaginato il Piano vaccinale costringendo le Regioni ad anticpare la fase della vaccinazione di massa. Manca un vero coordinamento nazionale, ogni Regione va da sé con performance molto diverse. E il rischio caos è dietro l'angolo

23 FEB - Fino a poco meno di un mese fa l’Italia era il secondo Paese in Europa per numero di vaccinazioni. Oggi, invece, siamo scivolati verso il fondo della classifica. 
 
E questo ‘crollo’ non può essere giustificato da una netta difformità negli approvvigionamenti vaccinali dal momento che i fornitori sono gli stessi per tutta l'Unione europea e non c'è una difformità negli approvvigionamenti che colpisce particolarmente l'Italia rispetto agli altri paesi. Semplicemente in Italia è aumentata la quota di dosi non somministrate: una su quattro, il 25%, è ferma in freezer.
 

 
E allora, cosa è successo in queste settimane? La prima cosa da notare è che, rispetto ad un mese fa, è cambiato il target delle persone da vaccinare. L’arrivo di AstraZeneca con la prima indicazione da parte di Aifa di un suo utilizzo solo per gli under 55 ha portato ad uno stravolgimento del Piano vaccini con un’apertura anticipata della fase della vaccinazione di massa. In funzione di questa nuova necessità, lo stesso Piano è stato modificato con la previsione di due percorsi paralleli: da una parte le Regioni proseguono la prima fase con la vaccinazione degli operatori sanitari, ospiti delle Rsa ed over 80 con i vaccini di Pfizer e Moderna; nel contempo si è iniziato ad usare il vaccino di AstraZeneca su alcune categorie ben definite, a partire dalle Forze armate e di Polizia, fino al personale scolastico.
 
Ma eravamo pronti alla vaccinazione di massa? La risposta, visti i numeri, è no. O almeno non lo eravamo in larga parte del Paese. Questo perché il Piano strategico vaccinale contro il Covid in realtà è solo in minima parte un piano nazionale. La sua declinazione sul territorio, sotto il profilo operativo, è infatti quasi totalmente demandata alle Regioni.
 
Bocciato definitivamente con l’arrivo di Draghi il progetto ‘Primule’, ovvero quei padiglioni “evocativi” temporanei da costruire nelle piazze delle città sponsorizzati a metà dicembre dal Commissario Arcuri, nel Piano si spiega che sono le Regioni a dover stabilire la localizzazione fisica dei punti vaccinali, il coordinamento operativo degli addetti, nonché il controllo sull’esecuzione delle attività. Al livello centrale, invece, compete la definizione delle procedure, degli standard operativi e dei lay-out degli spazi che dovranno essere utilizzati per l’accettazione, somministrazione e sorveglianza degli eventuali effetti a breve termine delle vaccinazioni.
 
Eppure, anche queste indicazioni di massima sembrano mancare. Il coordinatore nazionale della Commissione Salute della Conferenza delle Regioni, Luigi Icardi, ha spiegato a Quotidiano Sanità che, oltre all'aggiornamento del piano vaccinale presentato in Stato Regioni lo scorso 9 febbraio , “non c’è un piano nazionale vaccini nel vero senso della parola”. “Infatti, al di là della definizione e suddivisione per categorie di priorità non c’è nessun piano che spieghi come implementare sul territorio la fase di vaccinazione di massa, altrimenti non staremmo ancora a discutere su come dover procedere. Ogni regione si sta organizzando autonomamente. Hanno lasciato la scelta a noi, ci sono norme che disciplinano i locali per le vaccinazioni, abbiamo usato questo come riferimento”.

E già da qui potremmo avere la prima causa del rallentamento delle vaccinazioni. Se infatti inizialmente sapevamo di avere 293 punti di distribuzione sul territorio che coincidevano con quelli di somministrazione, dal momento che le vaccinazioni avevano interessato strutture sanitarie e Rsa, con un ‘target’ di persone facilmente intercettabile, ora con la vaccinazione di massa tutto cambia. Sappiamo che a oggi sono stati individuati circa 2 mila punti di somministrazione. Ma non si ha ancora alcun dettaglio su quali requisiti debbano avere questi punti, quale bacino di popolazione dovranno servire o quale numero di vaccinazioni dovranno garantire al giorno.
 
Abbiamo quindi 21 differenti piani regionali senza che a livello centrale ci sia qualcuno capace di definire e verificare standard minimi comuni. E questa differenza è visibile dal fatto che ci sono grandi differenze tra regioni: si va dal 60% di dosi somministrate di Calabria e Liguria all'80-85% di Campania e Toscana (provincia di Bolzano e Valle d'Aosta sono oltre il 90%).
 
Nel piano si prevede poi un coinvolgimento dei medici di famiglia e delle farmacie nella campagna di vaccinazione. Per quanto riguarda i medici di famiglia, lo scorso fine settimana è stato siglato un protocollo d’intesa. Anche questa intesa, però, rimanda quasi tutto alle Regioni. Nel testo si spiega infatti che “la platea dei soggetti da sottoporre a vaccinazione da parte dei medici di medicina generale, in relazione alla fascia di età, alle patologie, alle situazioni di cronicità, alla effettiva disponibilità di vaccini, nonché le modalità logistiche/organizzative per la conservazione e la somministrazione del vaccino” saranno disciplinate dagli accordi regionali.
 
Per quanto riguarda il luogo di vaccinazione è già la convenzione a disciplinare il tutto per cui “laddove i profili organizzativi e logistici della vaccinazione anti Covid-19 da effettuarsi da parte dei medici di medicina generale non consentissero la vaccinazione presso gli studi dei medici di famiglia, anche relativamente alla assenza di personale amministrativo e infermieristico, è previsto l’intervento professionale dei medici di medicina generale presso i locali delle aziende sanitarie (centri vaccinali) a supporto o presso il domicilio del paziente, da regolarsi negli accordi regionali”. Anche i compensi per i medici saranno definiti negli accordi regionali (tra l'altro già sottoscritti in metà delle Regioni). Mentre sarà compito della struttura commissariale quello di fornire le dosi necessarie.
 
Per quanto riguarda invece le farmacie, il comma 471 della legge di Bilancio rimanda a “specifici accordi con le organizzazioni sindacali rappresentative delle farmacie, sentito il competente ordine professionale”. Anche in questo caso il rimando è a “singoli accordi” con le Regioni, già conclusi però solo su alcuni territori.
 
Eppure le farmacie potrebbero svolgere un ruolo fondamentale data la loro capillare presenza a livello nazionale. Il presidente della Federazione degli Ordini dei Farmacisti, Andrea Mandelli, lo scorso gennaio ospite di Porta a Porta spiegava: ”Se solo la metà delle 18.000 farmacie italiane facesse 5 vaccinazioni al giorno, ne avremo quasi 50.000. Sarebbe un peccato non mettere a frutto un 'esercito' pronto. Siamo in guerra, serve usare anche armi non convenzionali. L'obiettivo deve essere quello di vaccinare il maggior numero di persone nel minor tempo possibile". Le farmacie, specie quelle rurali, potrebbero inoltre essere fondamentali anche per raggiungere gli abitanti dei paesi più piccoli e distanti dai grandi centri urbani. Ma uno dei principali ostacoli sembra essere rappresentato dalla carenza di medici disposti a seguire le vaccinazioni in farmacia. Nella norma, infatti, si spiega che per la vaccinazione in farmacia è necessaria la supervisione di un medico.
 
E arriviamo così al problema legato al personale. Nei mesi scorsi, al bando per reclutare 15.000 operatori hanno risposto in circa 24.000 professionisti. Delle domande completate, 14.808 sono state inoltrate da medici, 3.980 da infermieri e 408 da assistenti sanitari. Ricordiamo che nel bando si cercavano in realtà 3.000 medici e 12.000 infermieri. Ad oggi, come spiegato dal commissario Domenico Arcuri nel corso di una delle ultime conferenza stampa delle scorse settimane, alle squadre di vaccinazione delle Regioni si sono uniti 1.295 dei medici e infermieri, “cui si aggiungeranno un altro migliaio di operatori a partire da questa settimana”.
 
Anche qui, siamo indietro rispetto alla tabella di marcia. Dalle slide presentate lo scorso 6 gennaio proprio dal commissario Arcuri si può infatti notare che l’obiettivo per febbraio era quello di avere 4.525 operatori sul campo dedicati alle vaccinazioni. C’è poi da notare che ad aprile si dovrebbe salire a 12.000 operatori, per poi raggiungere nei mesi estivi - da luglio a settembre - un picco di 20.000 unità di personale. I dubbi non mancano, dal momento che, a seguito della rimodulazione del piano degli approvvigionamenti, sappiamo già che nel secondo trimestre ci sarà un importante balzo: si passerà da 15,6 ad oltre 52,4 milioni di dosi da dover gestire.
 
“Non arriva a sufficienza quello promesso da Arcuri, mancano gli infermieri, sono pochi quelli che hanno aderito al bando - ha spiegato Icardi -. Ho chiesto al ministro Speranza di attivare quelle procedure di pagamento straordinario del personale - a 50 euro l’ora per gli infermieri - per prestazioni aggiuntive previsto dalla norma”.
 
Insomma, i dubbi sul fatto che il Paese sia già pronto sul piano organizzativo e logistico alla fase di vaccinazione di massa sono tanti. Al momento la scarsità delle dosi sta avendo un ruolo ambivalente, da un lato è un tetto rispetto capacità di fare vaccinazioni delle regioni più preparate e dall'altro è un velo che può nascondere le inefficienze di quelle meno organizzate. E il rischio caos, è dietro l’angolo.
 
Giovanni Rodriquez

23 febbraio 2021
© Riproduzione riservata


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