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Cassazione. Annullata assoluzione per due infermieri accusati per decesso di un paziente in Pronto Soccorso. Era morto per infarto in attesa di essere visitato. Processo da rifare

di Luca Benci

In primo grado giudicati colpevoli. Uno per aver sbagliato codice al triage (verde anziché giallo). L'altro (al turno di notte), per la mancata rivalutazione delle condizioni del paziente. In appello l’assoluzione, anche perché veniva constatato l’eccezionale afflusso di persone in quel giorno. Ma per la Cassazione l’affollamento non è una scusante anche perché doveva essere lo stesso personale di PS a dare l’allarme e chiedere rinforzi

08 APR - La Corte di cassazione interviene sul triage di pronto soccorso, sul suo funzionamento e sulle responsabilità del personale infermieristico.
 
Il fatto. Paziente entra al pronto soccorso con dolore toracico a cui viene assegnato un codice verde. Il paziente non viene monitorato e non viene rivalutato. Dopo circa sei ore dall’ingresso il paziente si “accascia improvvisamente” per arresto cardiaco in sala di attesa. Viene immediatamente sottoposto a angioplastica coronarica ma decede per successive complicanze.
 
Vengono rinviati a giudizio due infermieri: quello del turno pomeridiano (paziente entrato alle 18,40) e quello del turno notturno.
 
Il Tribunale di Milano condanna entrambi per omicidio colposo: il primo per una sottovalutazione del paziente con conseguente errato codice e il secondo solo per la mancata rivalutazione del paziente. Per i giudici milanesi in relazione alla sintomatologia e all’età del paziente il codice più corretto sarebbe stato il giallo con conseguente accelerazione del trattamento. Dato che il paziente era arrivato - come è stato successivamente dimostrato - con un infarto in corso, iniziato 6-8 ore prima, una diagnosi tempestiva avrebbe permesso lo stesso intervento di angioplastica con risultati diversi. Di conseguenza è stato riconosciuto il nesso di causalità tra il comportamento omissivo e l’evento. L’altro comportamento contestato, sempre di carattere omissivo, era relativo alla mancata rivalutazione del paziente che per protocollo doveva essere rivalutato ogni 30-60 minuti.
 
Per la Corte di appello di Milano invece gli infermieri sono andati assolti“per non avere commesso il fatto” per un duplice ordine di motivi: l’erronea assegnazione del codice, sulla base dell’analisi della documentazione, non è dimostrata, mentre l’omissione del monitoraggio e di conseguenza della rivalutazione non era esigibile in quanto dalla analisi della documentazione si riscontra che il giorno dell’evento “nel pronto soccorso si erano verificate numerose urgenze che avevano impedito di procedere alla rivalutazione delle persone presenti” con un riferimento, in particolare, per l’infermiere del turno notturno. Un afflusso eccezionale, dunque, che non ha permesso la rivalutazione.
 
Infine i giudici di appello non riconoscono sussistente il nesso di causain quanto essendosi accertato che il processo infartuale era cominciato ben prima del ricovero con la conseguenza che “il tempestivo intervento avrebbe lasciato comunque sussistere non trascurabili percentuali di non sopravvivenza”.
 
Propone ricorso per cassazione contro la pronuncia assolutoria la procura generale presso la Corte di appello con numerosi motivi di ricorso.
Ci concentreremo sulle affermazioni relative alla “inesigibilità della condotta” da parte degli infermieri relative all’eccezionale afflusso. La cassazione nota come questo afflusso abbia avuto luogo più nel periodo notturno (e quindi a ore di distanza dall’ingresso del paziente) che in quello pomeridiano.
 
Comunque questa sorta di esimente impropria riconosciuta dalla Corte di appello di Milano - attraverso il riconoscimento dello stato di necessità, ex art.54 cp - viene censurata dalla suprema corte con un principio di diritto destinato a fare discutere e, soprattutto, a incidere negli assetti organizzativi:
Va rilevato, inoltre, che l'affermazione dell'esonero da responsabilità per omessa attuazione di una condotta doverosa ai fini della salvaguardia della vita umana avrebbe richiesto una compiuta analisi riguardo alla presenza di medici e infermieri in rapporto all'affluenza delle presenze in pronto soccorso, considerando non solo il personale ivi addetto, ma anche le disponibilità delle forze presenti nell'intero ospedale. Ed invero deve ritenersi che spetti al personale di pronto soccorso allertare il personale dei reparti ove si verifichino situazioni di emergenza tali da determinare la compromissione grave della salute dei cittadini bisognosi di cure di primo intervento, circostanza che in base alla compiuta valutazione delle risultanze probatorie non risulta emergere nella specie”.
 
A fronte quindi dell’eccezionale afflusso in un pronto soccorso non può invocarsi alcuna esclusione di responsabilità in relazione al rapporto personale/prestazioni se non dopo una “compiuta analisi” non (solo) del personale del pronto soccorso ma del personale presente nell’interno ospedale. Dopo questa analisi la cassazione ci dice che spetta “al personale di pronto soccorso allertare il personale dei reparti ove si verifichino situazioni di emergenza tali da determinare la compromissione grave della salute dei cittadini bisognosi di cure di primo intervento”.
 
Uno sconvolgimento anche delle questioni organizzative interne e che attribuisce “al personale” del pronto soccorso - si noti l’assenza di riferimento a qualsivoglia tipo di figura dirigenziale medica e delle professioni sanitarie - l’allertamento (di fatto lo spostamento) del personale dai reparti al pronto soccorso.
 
La cassazione capovolge la decisione della corte di appello non riconoscendo l’esimente dell’eccezionale afflusso- quanto meno nel caso di specie dopo l’insufficiente analisi limitata al personale del pronto soccorso - ma allarga i confini della “posizione di garanzia” in capo agli infermieri di provvedere alla salvaguardia della salute del paziente laddove questi non sia in grado di farvi fronte. Più esattamente siamo nella c.d. “posizione di protezione” attribuita ai professionisti sanitari. Posizione di garanzia, dunque, che estende al personale sanitario poteri organizzativi.
 
Curioso il richiamo all’art. 54 (stato di necessità) del codice penale - operato dai giudici milanesi di appello - per giustificare il comportamento omissivo (in particolare del primo infermiere), il quale non avrebbe rivalutato il paziente evidentemente, secondo il tenore della norma, per “salvare altri dal pericolo attuale di un danno grave”. Invocare la mancata rivalutazione di un paziente entrato con un dolore toracico a favore di altri pazienti che possono avere indici di gravità inferiori al dolore toracico significa avere sbagliato priorità nell’attività e agire per priorità è alla base proprio dell’attività di triage.
 
Senza entrare nel merito di una purissima disquisizione giuridica tra stato di necessità “giustificante” e “scusante” il richiamo ultroneo allo stato di necessità avrebbe reso lecito il comportamento doveroso della prontezza di accettazione e di prima valutazione del paziente essendo del tutto verosimile, in casi consimili (l’eccezionale afflusso), alla loro dilazionabilità per la prioritaria tutela dei pazienti già in carico. Questioni di priorità dunque.
 
I due comportamenti contestati - errore nell’attribuzione del codice e mancata rivalutazione - sono, ovviamente, tra di loro collegati. La rivalutazione di un codice correttamente giallo avrebbe comportato maggiore attenzione al paziente e la posizione del secondo infermiere che ha ereditato la sala di triage e le conseguenti posizioni di garanzia e protezione si è palesemente alleggerita proprio dall’attribuzione del codice inferiore e dalla mancata comunicazione del sintomo prevalente da parte del collega del pomeriggio: il dolore toracico.
 
La dichiarata differenza che esiste tra l’attività sanitaria di triage e un’attività amministrativa di accettazione è largamente nota. La raccomandazione ministeriale  (n. 15, febbraio 2014) denominata non a caso “Morte o danno conseguente a corretta attribuzione del codice di triage nella centrale operativa 118 e/o all’interno del pronto soccorso” aveva ben individuato le criticità di tipo “assistenziale” e sono ben evidenziati proprio i comportamenti contestati: “l’inadeguata valutazione del paziente” e la mancata osservazione e rivalutazione del paziente”.
 
E’ evidente che un reale, documentato ed evidente eccezionale afflusso al pronto soccorso, non risolvibile con le ordinarie misure organizzative o con quelle indicate dalla cassazione possa comunque comportare una esimente verso il personale presente secondo il noto brocardo Ad impossibilia nemo tenetur.
 
Dopo alcune valutazioni sul mancato riconoscimento del nesso di causa da parte dei giudici di appello la cassazione ha annullato la sentenza di assoluzione e ha rinviato gli atti sempre alla corte di appelloper la rivalutazione dei comportamenti posti in essere con particolare riferimento alla mancata rivalutazione e al nesso di causa stesso limitatamente al comportamento dell’infermiere del turno pomeridiano.
 
La vicenda giudiziaria, dunque, non si è conclusa ma il principio di diritto sopra riportato sull’insufficienza del personale del pronto soccorso per fare fronte a “eccezionali afflussi” e i comportamenti conseguenti da adottare è già un principio di giurisprudenza.
 
Luca Benci
Giurista

08 aprile 2015
© Riproduzione riservata

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