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Medico e infermiere, i limiti della responsabilità. La Cassazione penale distingue le competenze


Rinviata alla Corte di Appello di Catania una sentenza di doppia condanna di un anestesista e un infermiere per non aver seguito i protocolli nella fase post operatoria di un paziente finito in coma. Secondo la Cassazione la “fase di risveglio” è in capo al medico, da assolvere, quella “di recupero” è dell’infermiere, da condannare.  LA SENTENZA.

22 MAR - Dove finisce la responsabilità del medico e inizia quella dell’infermiere nella fase post operatoria? O meglio, quando e in che casi l’uno ha competenza prioritaria sul paziente?

A indicarlo è la sentenza 8080 della Cassazione penale, Sezione IV, del 20 febbraio 2017 che, ancora alla luce della legge Balduzzi, rinvia alla Corte di appello di Catania per il riesame una sentenza di condanna di un medico anestesista e un infermiere (per lesioni personali colpose con una pena di mesi 6 di reclusione ciascuno,  sospesa e condizionata al pagamento della provvisionale in favore delle parti civili) per non aver adeguatamente vigilato un paziente nella fase di risveglio al termine di una operazione chirurgica, non accorgendosi di un arresto respiratorio che provocava un successivo arresto cardio circolatorio con lesioni gravissime derivate alla prolungata ipossia cerebrale e successivo stato di coma. La Suprema Corte ha rinviato la sentenza ai giudici di Appello, ritenendo che avrebbero dovuto scindere le responsabilità dei due professionisti che, in questo caso, non avrebbero dovuto coinvolgere l’anestesista, ma solo l’infermiere.

La Cassazione sottolinea che la Corte territoriale ha fatto si ampio riferimento alle linee guida e ai protocolli operativi vigenti nell’ospedale come prescritto dalla legge, ma ha poi concluso affermando che “una attenta vigilanza e un intervento di rianimazione tempestivo da parte degli imputati (l’anestesista e l’infermiere, ndr), effettuato nell’immediatezza dell’insorgenza dell’arresto respiratorio e non dopo un periodo di tempo di almeno dieci minuti come nel caso in esame, avrebbe evitato con elevato grado di probabilità le lesioni gravissime e il conseguente stato di coma irreversibile " e che da ciò deriva "l’estrema gravità della condotta tenuta dagli imputati, i quali hanno disatteso l’obbligo di vigilanza su di essi gravante, e le irreversibili conseguenze derivanti a seguito della loro condotta sulla salute del paziente", ma ha sovrapposto due differenti posizioni di garanzia e non ha chiarito quale avrebbe dovuto essere, in base alle linee guida e dei protocolli operativi, il “diligente comportamento alternativo corretto", quale sia stata la "deviazione ragguardevole rispetto all’agire appropriato definito dalle standardizzate regole d’azione", in che misura si è realizzata la divergenza tra la condotta tenuta e quella che era da tenere e quanto fosse rimproverabile la condotta tenuta sulla base delle condizioni, quale fosse la motivazione della condotta e se sia stato compreso o meno di tenere una condotta pericolosa o negligente “ovvero imperita”.

L’errore della Corte che ha determinato un difetto di motivazione sulla valutazione del grado della colpa è di non aver tenuto nella giusta considerazione la distinzione esistente tra "fase di risveglio" e "fase di recupero", la prima affidata in via prioritaria al medico che deve intervenire con le manovre tecniche necessarie a ripristinare le normali funzioni vitali (correttamente assolta), la seconda affidata prioritariamente al personale infermieristico, per la quale è richiesta la assidua sorveglianza del paziente per controllare l’evoluzione della situazione e sollecitare l’intervento del medico ove necessario.

La sentenza si è limitata ad affermazioni generiche sull’obbligo di sorveglianza da parte del medico, ritenendolo anche nella "fase di recupero" del tutto identico e sovrapponibile a quello dell’infermiere, come se fosse necessaria la presenza costante di entrambi gli operatori, mentre appare invece ragionevole ritenere che la sorveglianza, da effettuare è vero in modo diretto e costante per tutto il tempo in cui il paziente è trattenuto negli spazi del recupero, può essere assicurata da uno solo dei due soggetti e anzi prioritariamente dall’infermiere.

Bisogna anche tenere conto che l’anestesista si è  allontanato dalla stanza in cui il paziente era già nella "fase di recupero" per completare lo scarico dei farmaci lasciando l’infermiere che, come si deduce dalla sentenza impugnata, si è allontanato in un momento successivo e valutare se, ammesso che la ricostruzione dei fatti sia corretta, sia comunque “ravvisabile colpa grave” nel comportamento dell’anestesista.

Mentre quindi l’anestesista aveva terminato il suo ruolo primario secondo le indicazioni dei protocolli, la condotta tenuta dall’infermiere, che si è allontanato nella fase in cui avrebbe dovuto monitorare secondo le linee guida costantemente il paziente “appare in contrasto con i protocolli e le linee guide operanti nel settore e comunque connotata certamente da colpa grave, con la conseguenza che non può trovare applicazione il c.d. decreto Balduzzi".

Per questa carenza motivazionale la Cassazione penale ha annullato la sentenza della Corte di Appello di Catania a cui ha rinviato gli atti, limitatamente alla posizione dell’anestesista..

22 marzo 2017
© Riproduzione riservata


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