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Ortodossia e deontologia medica al tempo dei vaccini

di Antonio Panti

04 GIU - Gentile Direttore,
questa volta non sono d'accordo con l'amico Ivan Cavicchi e, con la consueta stima, proverò a dimostrarlo. Ivan si scaglia contro la radiazione di due medici antivaccinisti con  lo stesso impeto col quale ha difeso l'Ordine di Bologna per le sanzioni comminate ad alcuni colleghi che, in scienza e coscienza, pensano che prima di far morire un paziente in ambulanza è bene che l'infermiere faccia quel che sa fare.
 
Tuttavia non discuto questa opinione di Ivan, anche se è buona norma attendere le motivazioni della sanzione. Per quel che mi riguarda ho sempre sostenuto di non esser tanto preoccupato da qualche medico di opinione contraria quanto che tutti i medici sappiano rispondere con comprensione, attenzione e competenza alle legittime domande della gente.
 
Però Cavicchi affronta un tema ben più grande, quello del rapporto tra ortodossia e deontologia, cioè del significato della libertà e indipendenza della professione, rivendicate dal codice deontologico. "Nessun medico è radiabile se in scienza  e coscienza quindi sulla base di quello che sa e crede e di cui è convinto ritiene di fare o non fare", scrive Ivan.
 
Ritengo questa lettura del codice fuorviante, portatrice di una licenza che potrebbe diventare prevaricazione nei confronti di chi si affida alla sola "scienza", presunta quanto la "coscienza", del medico. Capita che qualcuno muoia per essersi affidato a qualche ciarlatano medico.
 
Voglio quindi affrontare il tema del rapporto tra ortodossia e deontologia; per inciso noto soltanto che le opposizioni alle vaccinazioni si concretizzino per lo più in gruppi religiosi integralisti e si assista in questo paese ad un ritorno (sessantottino?) a una sorta di epistemologia anarchica, una sorta di crocianesimo in salsa trozkista.
 
Ho passato la vita a difendere la libertà dei medici perfino nella incredibile vicenda dell'obiezione alla pillola del giorno dopo. Quindi cerco di spiegarmi in sintesi. Quando, insieme a un gruppo di amici, ho cominciato a occuparmi del codice, a metà degli anni ottanta, l'unica regola del medico era la sua scienza e coscienza al servizio del paziente, il quale tuttavia, in caso di prognosi infausta, non doveva essere avvertito: il medico ne avrebbe dato notizia solo ai parenti.
 
Nel frattempo però l'Itala si era data una Costituzione fortemente personalistica, i medici si erano dotati delle grandi carte internazionali, da Norimberga a Oviedo, era nato il movimento della bioetica e la società stava abbandonando antichi valori gerarchici e costrittivi. In quegli anni introducemmo nel codice il concetto di autodeterminazione, chiamando il paziente cittadino e poi persona, e poi dettammo le norme sulla sicurezza del paziente, sul consenso informato, sull'appropriatezza delle cure, sulla sperimentazione sull'uomo. In fondo definimmo l'atto medico come assolutamente libero purché agito nell'ambito delle regole della comunità scientifica e del codice deontologico.
 
Mi sembra di capire (Ivan scrive in modo assai hegeliano) che la eterodossia sia da definire secondo regole proscrittive e modali. Ora intendiamoci: un amico mi scrive, criticando la sanzione milanese (e su questo non ho da obbiettare), la stessa osservazione sulla libertà di scienza e coscienza. A fine ottocento nel suo piccolo ospedale (racconta il mio amico) un medico apponeva sanguisughe sulla mucosa anale e nessuno obbiettava. Ottimo esempio. Prendiamo in considerazione questa ipotesi oggi. Ammesso che non sia cervellotica, il medico ha tutto il diritto di studiarla. Semplicemente ci dirà i criteri di reclutamento, gli end points perseguiti, i materiali e il metodo della ricerca, raccoglierà il consenso dei soggetti, chiederà il parere di un comitato etico indipendente e così via. Ammettiamo che i risultati ci siano, ben dimostrati statisticamente.  Una nuova scoperta.
 
Ma se i risultati non ci sono e il medico proseguisse in quella terapia, lucrandoci sopra e vantando successi che non ha dimostrato, non sarà da sottoporre a giudizio ordinistico?
 
Torniamo alle tesi antivaccini. Libertà di opinione? Ma le opinioni, fondamento di ogni scienza, vanno dimostrate, altrimenti ne siamo fuori. E il legame causale con tante patologie? Perché lo si afferma ma non lo si dimostra? E le terapie di questi supposti danni da vaccino, in genere prive di qualsiasi razionale, fanno parte della scienza? Della coscienza? La libertà di opinione politica ha gli stessi fondamenti di quella scientifica. Ma questa deve essere dimostrata secondo regole accettate in tutto il mondo, quelle regole che nello stesso tempo garantiscono il cittadino e il progresso della medicina.
 
Un ultimo codicillo. Non vi è medico non convenzionale che non abbia inneggiato agli antibiotici a proposito dell'ultimo disgraziato caso. Pare infatti che si tratti di un bacillo aggredibile con antibiotici. Mi chiedo: è certamente meglio aver vaccinato prima il bambino, ma non lo facciamo per difendere la nostra libertà di scelta; se però si ammala allora viva gli antibiotici, i quali presentano reazioni avverse molto meno rare dei vaccini. Vaccini no, antibiotici sì. Forse sono disadatto alla post verità.
 
Antonio Panti
Presidente Omceo Firenze

04 giugno 2017
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