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“Dica 33” ai tempi del Coronavirus

di Biagio Papotto

26 MAR - Gentile Direttore,
nell’immaginario collettivo di chi - come il sottoscritto – ha qualche anno, il medico rivolgeva questo invito alla persona cui voleva auscultare il torace. Molti di noi sono stati imitati, in tv e non solo, con questa frasetta innocente e assieme distintiva. La situazione è cambiata.
 
I medici si chinano ancora verso i pazienti (spesso ci inginocchiamo, perché mancano i letti, nell’Italia dell’anno di grazia 2020, in una nazione in cui non molto tempo fa si parlava di spendere miliardi per organizzare le Olimpiadi…) e li visitano, con pazienza e professionalità, perché adesso tocca a noi dimostrare che non lasciamo indietro nessuno, al di là di qualsiasi orario. E di qualsiasi rischio. Noi siamo il Sistema Sanitario Nazionale, per la gente.
 
Ma non diciamo più quelle parole. E non solo perché abbiamo cambiato metodo. Perché “trentatre” adesso è un numero sinistro, perché mentre scrivo apprendo che quella è la cifra spaventosa che assomma i colleghi che ci hanno lasciato, amici, professionisti che hanno fino all’ultimo assicurato attenzione e cura verso le persone.
 
Senza avere altrettanta attenzione, senza avere la cura che meritiamo per il solo fatto di garantire - con la nostra presenza e le nostre conoscenze scientifiche, con la nostra esperienza e la nostra umanità – una delle funzioni più importanti di uno stato davvero civile.
 
Abbiamo faticosamente siglato, proprio questa mattina, un Protocollo per la sicurezza dei lavoratori della Sanità, atto necessario per richiamare alle proprie responsabilità chi deve assicurare tutte le migliori condizioni possibili di igiene e sicurezza dei medici e dei sanitari in genere.
 
Perché siamo stanchi di essere bistrattati e poi – quando scoppia un’epidemia – essere chiamati “angeli”. Accettiamo di buon grado la gratitudine delle persone, ma a quella siamo più avvezzi, perché ogni giorno, mentre eravamo bellamente ignorati, abbiamo continuato a lavorare, senza riflettori, senza grosse parole, senza applausi.
 
Le nostre soddisfazioni venivano dalle singole piccole e grandi storie che ogni nostro paziente portava con se’, e ci rubava un pezzetto di cuore, ma ci donava tutta la propria riconoscenza.
Non vogliamo ipocriti attestati, di stima e affetto; non vogliamo alcunché, adesso.
 
Solo le condizioni per lavorare al meglio. E – quando questa emergenza sarà finalmente un brutto ricordo – che siano garantiti e mantenuti sempre gli organici e le risorse strumentali all’altezza delle sfide che saremo chiamati ad affrontare. Non a mani nude come siamo stati costretti a fare troppo spesso, senza la necessaria attenzione che ogni Stato deve a chi garantisce la salute alla nazione.
Perché non vogliamo che i colleghi siano angeli. Li vogliamo tutti vivi.
 
Biagio Papotto
Segretario nazionale Cisl Medici

26 marzo 2020
© Riproduzione riservata

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