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Diabete di tipo 1. La cura è vicina. Ma la bloccano burocrazia e alti costi della ricerca

di Laura Berardi

Il trapianto di isole pancreatiche è l’unica tecnica poco invasiva che oggi permette ai pazienti diabetici di sospendere a lungo l’assunzione di insulina. Camillo Ricordi, uno dei massimi esperti della procedura, ci spiega tutte le difficoltà, scientifiche e soprattutto burocratiche, di questo metodo. Nostro servizio da Innsbruck 

30 GEN - Negli ultimi 15 anni è passata dall’essere una procedura sperimentale rara per il trattamento del diabete di tipo 1 ad essere una terapia clinica di successo. Parliamo del trapianto di cellule delle isole pancreatiche, un metodo che ha molto di italiano, visto che il vero punto di svolta nella sua applicazione è stato lo studio di un metodo semiautomatico di isolamento delle isole di Langerhans sviluppato da Camillo Ricordi – oggi direttore del Diabetes Research Institute di Miami – alla fine degli anni Ottanta.
 
Il metodo, insieme ad un preciso protocollo di immunosoppressione, permette oggi a molti pazienti diabetici di sospendere l’assunzione di insulina. Abbiamo chiesto proprio a Ricordi, a margine del Simposio “Current issues in pancreas/islet transplantation” in corso a Innsbruck nell’ambito del Congresso AIDPIT/EPITA Winter Symposium, di raccontarci quali sono al momento i principali problemi che la ricerca affronta in questo campo, e quali i problemi ancora da risolvere.
 
Lo scopo della terapia del diabete di tipo 1 è quello di ripristinare una condizione glico-metabolica il più possibile simile a quella normale. Poiché la causa del diabete di tipo 1 è la carenza assoluta di insulina, dovuta alla distruzione da parte del sistema immunitario delle cellule b-pancreatiche dell’organismo stesso, la terapia ad oggi si basa principalmente nella somministrazione dell’ormone dall’esterno.
Tuttavia, l’unica alternativa realmente possibile sul lungo termine, per evitare le conseguenze delle complicazioni nelle forme più gravi, è quella di ristabilire la produzione di insulina da parte dell’organismo. Per farlo, nei casi più gravi, si ricorre al trapiano di pancreas o di rene-pancreas, che tuttavia è una pratica molto invasiva e sicuramente rischiosa (il 40% dei pazienti presenta complicanze chirurgiche nel decorso post-operatorio), e che dipende dalla reperibilità – sicuramente difficoltosa – di un organo compatibile con il singolo paziente.
Per questo, nel tempo, si è pensato alla sostituzione delle cellule b-pancreatiche compromesse, condizione che può essere ottenuta per l’appunto grazie al trapianto di isole pancreatiche, tecnica poco invasiva, che permette ai pazienti di sospendere la quotidiana assunzione di insulina per lunghi periodi di tempo, prima che fenomeni infiammatori e immunitari innescati dalla procedura di infusione entrino in atto contro le stesse isole trapiantate.
 
La limitazione dell’azione del sistema immunitario contro le cellule infuse è dunque uno dei primi problemi che la ricerca sta tentando di risolvere. “Il trapianto di cellule delle isole pancreatiche è una procedura in grado di trattare la condizione di diabete di tipo 1, ma che prevede – come tutti i trapianti – il ricorso nel periodo post-operatorio a delle terapie anti-rigetto”, ci ha spiegato Ricordi, raggiunto proprio nella sede del simposio. “Ciò di fatto limita il numero di pazienti che possono ricorrere alla terapia, eliminando tutti coloro che potrebbero avere delle complicazioni nel ricorso a terapie immunosoppressive di lunga durata. Per questo, uno degli ambiti di ricerca più importanti è sicuramente lo sviluppo di strategie che non prevedono immunosoppressione a vita, un risultato che è possibile ottenere solo grazie a una rieducazione del sistema immunitario”.
 
Una rieducazione del sistema immunitario può permettere ai pazienti che si sottopongono a trapianto di cellule delle isole pancreatiche di rimanere più a lungo indipendenti dall’insulina. E in questo senso può aiutare un nuovo farmaco sviluppato in Italia, Reparixin, inibitore dell’interleuchina-8, una chemiochina che gioca un ruolo fondamentale nella risposta infiammatoria alla base della riduzione dell’efficacia dell’infusione di isole. “Abbiamo osservato che bloccare i processi infiammatori prima di iniziare la terapia farmacologica che induce tolleranza nel sistema immunitario, come fa Reparixin, permette di ottenere risultati migliori. Quello che si fa, in sostanza, è ‘mascherare’ il trapianto di cellule estranee, in modo che l’organismo eviti di lanciare i segnali che poi innescano il rigetto”, ha continuato il direttore del Diabetes Research Institute. “Questo meccanismo funziona particolarmente bene sulle isole pancreatiche, che sono poche cellule e piuttosto sensibili, ma non escludo che potrebbe aiutare anche in altri tipi di patologie autoimmuni”.
 
Tra i paesi che pensano che sia necessario puntare sulla tecnica di trapianto delle isole pancreatiche c’è sicuramente la Gran Bretagna, che dopo un lungo processo di approvazione è riuscita sia a inserire la procedura tra quelle rimborsate dal National Health Service (NHS), sia a stilare delle linee guida NICE specifiche sulla procedura. Tuttavia, a questa buona notizia per i pazienti diabetici inglesi non sembrano affiancarsene altre a livello internazionale: anzi le approvazioni sia per le procedure che per i trial sono molto lente e macchinose e questo è uno dei problemi della ricerca in questo campo. “Il sistema di approvazione è sempre più complesso, e i costi lievitano”, ci ha detto Ricordi. “Questo ha due conseguenze non auspicabili: una è che viene limitato il numero di sperimentazioni che viene fatto e l’altra è che sono meno anche le realtà che riescono a fare trial, sempre meno piccoli centri di ricerca e sempre più solo grandi blocchi farmaceutici. Il problema è che se una regolamentazione in sé è giusta, perché bisogna fare ricerca nella massima sicurezza e tutela dei pazienti, è anche vero che non è possibile paralizzare l’innovazione per problemi di questo tipo”.
 
Ma come si può risolvere il problema? “L’unico modo è quello di discutere, specialisti, governi e agenzie regolatorie, di come sia possibile a livello geografico aggirare questo problema senza andare a discapito della qualità della ricerca. È chiaro che se l’unico parametro è quello di evitare rischi, l’unico modo è non fare sperimentazioni”, ha spiegato con una battuta. “Per questo abbiamo creato la Cure Alliance, alleanza no-profit di scienziati, medici e chirurghi di fama internazionale, personalità note dell'industria e singoli, che ha l'obiettivo di cambiare le regole per arrivare a sviluppare cure in maniera più veloce, efficiente e sicura possibile. Il tentativo è quello di lottare in questo senso anche nei paesi in cui ci sono regolamentazioni stringenti, magari accordandosi su come raccogliere i dati per snellire i meccanismi di approvazione, in modo da non spingersi su posizioni antagoniste che non risolvono il problema”.
 
Laura Berardi

30 gennaio 2013
© Riproduzione riservata

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