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Ecco l’ormone che fa ingrassare

di Maria Rita Montebelli

Una ricerca della McMaster University rivela che un eccesso di serotonina circolante può provocare obesità, steatosi epatica e favorire la comparsa di diabete di tipo 2. L’ormone sortirebbe questi effetti metabolici, agendo come un freno a mano sul grasso bruno, il ‘brucia-calorie’ dell’organismo. La ricerca pubblicata su Nature Medicine

09 DIC - C’è un tipo di grasso, detto ‘bruno’, molto rappresentato nel neonato, ma poco nell’adulto (a questa età ne rimangono solo delle ‘isole’ intorno alle clavicole), che è al centro dell’attenzione da molto tempo perché secondo alcuni potrebbe un giorno fornire delle importanti strategie anti-obesità.
 
L’importanza metabolica di questo tipo di grasso sta nel fatto che si comporta come una specie di ‘caldaia’, un inceneritore di calorie; la sua principale funzione è infatti quella di mantenere il corpo caldo, bruciando appunto i depositi di energia immagazzinati nel tessuto adiposo.
 
Sebbene sia noto da tempo che le persone obese abbiano scarse quantità di grasso bruno e che l’attività di questo particolare tessuto tende a ridursi con il passare degli anni, finora non era noto perché ciò avvenisse.
 
La spiegazione andrebbe ricercata in un ormone, la serotonina, suggerisce un lavoro della McMaster University, appena pubblicato su Nature Medicine. E’ noto che la serotonina rappresenta un importante neuro-mediatore che, nel sistema nervoso centrale, entra nei complessi meccanismi di regolazione dell’umore e dell’appetito. Ma la serotonina presente nel sistema nervoso simpatico rappresenta appena il 5% del totale e non importa ai fini di questa ricerca, che si è invece focalizzata sul restante 95% della serotonina dell’organismo, quella che si ritrova nella circolazione generale. Sarebbe infatti proprio la serotonina circolante a ‘ingolfare’ il brucia-calorie dell’organismo, il grasso bruno, impedendogli di svolgere la sua azione fisiologica e, in via collaterale, di dissipare calorie.
 
E i ricercatori canadesi lo hanno provato: riducendo la produzione di serotonina periferica, il grasso bruno diventa più attivo e performante.
 
“I nostri risultati sono sorprendenti – commenta Gregory Steinberg, coautore della ricerca, professore di medicina presso la Michel G. DeGroote School of Medicine e condirettore della MAC-Obesity, il programma di ricerca su obesità infantile e metabolismo della McMaster University – e suggeriscono che l’inibizione di questo ormone potrebbe rivelarsi molto efficace nel correggere l’obesità e le malattie metaboliche correlate, compreso il diabete. Troppa serotonina agisce come un freno a mano per il grasso bruno; puoi anche saltare sull’acceleratore, ma lui non si muoverà”.
 
Ma cos’è che fa aumentare i livelli circolanti di quest’ormone favorente l’obesità? I ricercatori canadesi hanno trovato una spiegazione anche a questo; si tratterebbe di un fattore ambientale, da loro individuato  nell’eccesso di grassi contenuti nelle diete ‘occidentali’.
 
La maggior parte della serotonina è prodotta a partire dalla triptofano idrossilasi (Tph1); inibendo farmacologicamente questo enzima o creando dei topi knock out per la Tph1, anche nutrendo gli animali con una dieta ad elevato contenuto di grassi, non li si rende obesi e non compaiono né steatosi epatica, né pre-diabete, perché il loro grasso bruno continua, come niente fosse, a bruciare calorie.
 
Tra l’altro, l’inibizione periferica della serotonina non va ad impattare su quella attiva a livello del sistema nervoso centrale. Paradossalmente, nei vari tentativi di trovare la ‘pillola’ anti-obesità, in passato si è fatto ricorso anche a farmaci (poi rimossi dal commercio perché danneggiavano le valvole cardiache e aumentavano il rischio di depressione e quindi di suicidio) che riducevano l’appetito andando ad inibire il reuptake della serotonina e altri neutrotrasmettitori.
 
Mentre fino ad oggi, tutti gli sforzi di trovare una soluzione farmacologica al problema dell’obesità si sono concentrati - dalle anfetamine all’ultima arrivata, la lorcaserina - sui circuiti serotoninergici cerebrali, il futuro, anche alla luce dei risultati di questo studio, sembra puntare tutto su terapie che agiscano in periferia. “Riteniamo – commenta Steinberg – che andare ad aumentare il dispendio energetico rappresenti un’ipotesi di lavoro molto più sicura, rispetto a quella di ridurre l’appetito, che presenta di certo molti più rischi”.
 
Inibire la produzione di serotonina, attraverso il blocco enzimatico di Tph1 potrebbe dunque rappresentare un efficace trattamento contro l’obesità e le comorbilità associate. E i ricercatori della McMaster sono già al lavoro per mettere a punto un inibitore enzimatico da usare come farmaco.
 
Maria Rita Montebelli

09 dicembre 2014
© Riproduzione riservata

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