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Cancro della mammella: un nuovo test genetico consente di individuare chi può evitare la chemioterapia

di Maria Rita Montebelli

Si chiama 21-gene RS ed è un test che permette di definire che rischio ha una paziente con carcinoma della mammella in fase precoce di andare incontro ad una recidiva, indipendentemente dalla presenza di una serie di condizioni che tradizionalmente identificano un rischio intermedio-elevato di progressione di malattia. Fino al 50-60% delle pazienti con tumore della mammella in fase iniziale, secondo gli autori dello studio, potranno evitare la chemioterapia, senza compromettere la loro prognosi.

12 MAR - Un test multi-gene permette di individuare a quali pazienti con carcinoma della mammella in fase precoce può essere risparmiato il trattamento chemioterapico. È quanto suggeriscono i risultati di uno studio presentato ad Amsterdam, dove è in corso il decimo European Breast Cancer Conference (EBCC-10).
 
Il trial di fase III PlanB del West German Study Group dimostra infatti che il 94% delle donne valutate come a basso rischio di recidiva dal test 21-gene Recurrence Score sono risultate in effetti libere da malattia a distanza di 5 anni. Tra il 2009 e il 2011 sono state arruolate per questotrial 3.198 pazienti di età media 56 anni.
 
E’ questo il primo studio al mondo effettuato con il 21-gene Recurrence Score (RS) a valutare i dati di sopravvivenza a 5 anni nelle pazienti con carcinoma della mammella in fase precoce, linfonodi positivi  (da 1 a 3) o negativi e con recettori ormonali positivi (HR+) o con malattia HER2 negativa.
 
Il 21-gene RS è un test che analizza appunto un gruppo di 21 geni in grado di influenzare il comportamento del tumore e la sua risposta alla terapia. La risposta genera un punteggio da 0 a 100 e in questo studio, le pazienti che avevano totalizzato un punteggio basso, pari o inferiore a 11, venivano considerate a basso rischio di recidiva, nonostante una serie di altri parametri, quali lo stato dei linfonodi, il grading e le dimensioni del tumore, l’età della paziente, potessero suggerire che fossero ad alto rischio.
 
Sulla base di questo ragionamento, a 348 pazienti (il 15,3% del totale) con RS pari o inferiore a 11, è stata evitata la chemioterapia adiuvante e somministrata la sola terapia ormonale. Tutte le altre pazienti con RS superiore a 11 o con oltre 4 linfonodi positivi o con recettori ormonali negativi sono state assegnate al gruppo a rischio intermedio o a quello ad alto rischio e randomizzate a ricevere o sei cicli di docetaxel/ciclofosfamide o 4 cicli di epirubicina/ciclofosfamide, seguiti da 4 cicli di docetaxel.
 
Dopo 55 mesi di follow up, il 94% delle pazienti categorizzate come a ‘basso rischio genomico’ e trattate con la sola terapia ormonale risultavano ancora in vita e senza recidiva di malattia. Tra le pazienti definite a rischio ‘intermedio’ sulla base del test 21-gene RS, trattate con chemioterapia adiuvante, la sopravvivenza libera da malattia a 5 anni era del 94%, mentre tra quelle ad alto rischio (RS ≥ 25) era dell’84%.
 
“In questotrial prospettico– afferma Oleg Gluz, uno dei due coordinatori del West German Study Group – le pazienti con un rischio di recidiva intermedio-alto secondo parametri clinici e con da 0 a 3 linfonodi positivi, grazie al test 21-gene RS siamo stati in grado di individuarne un 15% a basso rischio genomico. Queste donne sono state trattate con la sola terapia ormonale ed hanno potuto evitare dunque la chemioterapia; il 94% di loro sono risultate libere da malattia a 5 anni e questo è un risultato eccellente”.
 
Ulteriori analisi sugli altri fattori prognostici (stato linfonodale, dimensioni del tumore, grading, Ki67) hanno dimostrato che il 21-gene RS rappresenta un predittore indipendente di recidiva di malattia migliore rispetto ai fattori clinici o al Ki67, sia quando utilizzato da solo che insieme a questi parametri tradizionali.
 
“Il test RS ha fornito ulteriori e indipendenti informazioni prognostiche, oltre quelle date dai marcatori prognostici clinici. Questi sono i primi risultati a 5 anni di uno studio con disegno prospettico, che ha messo a confronto i fattori prognostici tradizionali (compreso il Ki67) con il test 21-gene RS. I nostri dati – sostiene Gluz - dimostrano che il test RS ha un impatto prognostico più importante dell’immunoistochimica, cioè dell’espressione recettoriale delle cellule tumorali e del Ki67, e dunque suggeriscono di incorporare il test RS, insieme a stato linfonodale, grading e dimensioni del tumore, nella pratica clinica quotidiana per guidare le decisioni terapeutiche.”
 
Al momento per avere i risultati del test RS servono dagli 8 ai 10 giorni, poiché  l’esame, che si esegue sul tessuto tumorale, viene effettuato presso un laboratorio centralizzato. L’implementazione di questo test è facile ma i costi al momento non sono coperti dai servizi sanitari di tutti i Paesi. “Eppure molti studi hanno dimostrato – prosegue Gluz – che ha un buon rapporto costo-efficacia poiché consente un impiego più personalizzato e meno frequente della chemioterapia”.
 
La comunità scientifica internazionale sta ora aspettando i risultati a lungo termine di un altro studio che ha al vaglio un altro test, il Mammaprint. “Ci auguriamo – afferma la professoressa Nadia Harbeck, direttore scientifico del WSG e direttore del centro di senologia dell’Università di Monaco (Germania) – che i test genomici valutati in questi studi siano presto rimborsati nella maggior parte, se non in tutte le nazioni europee. L’impiego di questi test consentirà in futuro di selezionare le pazienti che potranno beneficiare di nuove terapie a target, visto che il gruppo delle pazienti ad alto rischio genomico non ha avuto un gran risultato con la chemioterapia”.
 
E intanto il follow up dello studio appena presentato ad Amsterdam sarà esteso a 10 anni (trial WSG-ADAPT) su 4.000 pazienti. Obiettivo dello studio sarà associare il test RS alla valutazione della risposta precoce alla terapia ormonale di breve durata preoperatoria, indicata dalla riduzione del Ki67. “L’associazione di entrambi questi parametri – sostiene Gluz - consentirà di evitare la chemioterapia adiuvante nel 50-60% delle pazienti con tumore della mammella in fase precoce. I risultati finali dello studio saranno disponibili nel 2021”.
 
Maria Rita Montebelli

12 marzo 2016
© Riproduzione riservata

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