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Ancora sul caso dell’ospedale Sant’Antonio di Padova

di Adriano Benazzato, Mirko Schipilliti
22 NOV - Gentile Direttore,
con l'avvio della procedura di “trasferimento del ramo d’azienda” dell'Ospedale Sant'Antonio dell’Azienda ULSS 6 Euganea all'Azienda Ospedaliera-Universitaria di Padova, su uno scenario dove amministratori e politici continuano a voler affermare la propria supremazia predicandone l'ineluttabilità, l'assoluta necessità e l’urgenza, ad un mese dal programmato passaggio è doveroso concentrare l'attenzione sul concetto di sicurezza e qualità delle cure e di evento avverso nei pazienti afferenti alle aziende ospedaliere e/o universitarie rispetto ai casi trattati in strutture ospedaliere prive del sistema universitario.  
 
Ormai prevista il 1° gennaio – prima delle prossime elezioni politiche regionali, sperando forse di sedare dissensi e favorire atteggiamenti remissivi – anche se la Regione dava un ulteriore anno di tempo, al di là di responsabilità giuridiche e patrimoniali che saranno approfondite nelle apposite sedi, è indispensabile ribadire quanto manovre e forzature come questa sull’Ospedale Sant’Antonio di Padova non possano rientrare a priori in una gestione sociosanitaria pubblica esclusiva, di vera efficienza ed efficacia sul piano più scientifico della medicina evidence-based. Lo conferma indirettamente la stessa comunicazione scritta inviata ai sindacati di avvio della procedura di “Trasferimento del Ramo d’Azienda”, che nonostante quanto imponga la normativa, non riporta motivazioni documentate sulle ragioni del passaggio – ma riferimenti a vaghe informative – del resto mai fornite né da politici né da amministratori, al di là di meri slogan di opportunità, poiché si confonde l’effetto con la causa, il risultato (la cessione) con le sue vere ragioni, e non si tratta di essere sospettosi o presumere complotti.
 
Sappiamo infatti come alcuni mesi fa il Presidente della Scuola di Medicina dell'Università di Padova, contestato da ANAAO, svelasse bene come la “longa manus” universitaria agisse nelle retrovie di tali operazioni affermando “una sola regia“ e giocando sulla pubblicità che essa assicurerebbe “qualità e sicurezza in tutto l'ambito delle cure”. Dato il ruolo che l'Accademia vorrebbe svolgere nel panorama sanitario regionale e padovano, è assai preoccupante che tali convinzioni, amplificate dal vociferare dei politici accondiscendenti – i quali tuttavia non godono solitamente di una formazione scientifica – non solo non sia corroborata dai fatti, ma sia priva di logica. Da chi si vorrebbe ergere come il faro della conoscenza scientifica, ci si aspetterebbe quindi un approccio razionale basato sulle evidenze e non sul facile richiamo mediatico.
 
Dimostriamo invece con questo articolo che vi sono moltissime pubblicazioni scientifiche che evidenziano il contrario e mettono in discussione quanto affermato da chi vuol fare il padrone di cure “migliori”, ovvero che non è dimostrato vi siano cure più sicure negli ospedali “di insegnamento”, dove sono previsti un diverso sistema di lavoro e la vocazione per cure ad alta e altissima complessità, anzi. Fra diverse limitazioni, lo studio pubblicato su JAMA nel 2017 aveva prodotto dati difformi sulla mortalità negli USA nei pazienti ultrasessantacinquenni a 30 giorni dal ricovero, dato che gli ospedali “d'insegnamento” venivano divisi in base all'affiliazione al Council of Teaching Hospitals e solo i 250 ospedali affiliati presentavano una mortalità lievemente inferiore ma significativa (8.1%) rispetto ai 3339 generalisti (9.6%), i quali tuttavia presentavano a loro volta risultati sovrapponibili a quelli d'insegnamento ma non affiliati (9.2%); peraltro non per ogni patologia e solo sulla mortalità. Un dato – il primo – che potrebbe essere semplicemente correlato solo al ruolo di centro “Hub” di riferimento all'interno del network ospedaliero più che a quello “d'insegnamento”. Lo studio del 2018 su 16 ospedali pubblicato dall’American Academy of Pediatrics, dimostrò invece una maggiore incidenza di eventi avversi negli ospedali d’insegnamento. A titolo di esempio, nei paesi anglosassoni si discute ancora della maggiore frequenza di eventi avversi negli ospedali sede d’insegnamento connessi al cosiddetto “July effect” (“effetto luglio”) ovvero quando – nel mese di luglio – gli specializzandi più esperti vengono rimpiazzati da quelli più giovani senza un adeguato tutoraggio.
 
Malgrado quindi la dimostrazione irrefutabile che chi sostiene l'assoluta bontà e necessità di una sanità padovana unicamente gestita sotto l'ala universitaria abbia volutamente omesso di citare anche le numerose evidenze contrarie a tale tipo di esclusiva organizzazione, va inoltre precisato che oltre alla complessità della materia in questo ambito, vi è comunque un'assoluta preponderanza di articoli scientifici che fanno riferimento ad ospedali e sistemi sanitari stranieri, che ovviamente non possono essere semplicisticamente adattati alla realtà italiana. L’unica ricerca pubblicata in Italia, nel 2012, sugli eventi avversi nei nostri ospedali ha esaminato 7573 cartelle cliniche di 5 ospedali (di cui 4 sedi universitarie) scelti secondo criteri di dislocazione territoriale (Nord, Centro e Sud) e di complessità (aziende ospedaliere di riferimento a livello nazionale), evidenziando un’incidenza media complessiva di eventi avversi inferiore al tasso internazionale. Tuttavia, lo studio della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa uscito sul British Medical Journal nel 2016, a firma della rettrice Sabina Nuti, confrontando 15 strutture ospedaliere-universitarie italiane rispetto a 187 ospedali “generalisti” afferenti a 73 ULSS, ha dimostrato che non vi sono migliori risultati in termini di appropriatezza, efficienza, soddisfazione dei pazienti, stime economico-finanziarie e outcome tra ospedali universitari e non (la prof.ssa Nuti è Ordinario di Economia e Gestione delle Imprese e Responsabile del Laboratorio Management e Sanità dell’Istituto di Management nonché responsabile scientifico del Sistema di Valutazione della Performance per il network delle Regioni incluso il Veneto).
 
Restano poi lo scoglio delle spese per la comunità su questo tipo di prestazioni e la minaccia dei piani di rientro per le Aziende ospedaliero-universitarie, che – come ricorda lo studio Sant’Anna – percepiscono una quota aggiuntiva fino al 30% dei costi in più sulle prestazioni erogate finalizzate a didattica e ricerca, ed a carico delle ULSS, che dispongono invece di una quota capitaria per rimborsarle, oltre alla tipologia e quantità di prestazioni sussidiarie o aggiuntive aziendali per ogni paziente in cura che esse possono erogare sempre e comunque al di fuori del controllo di spesa delle ULSS. Un “lusso” già richiamato nel 2008 dall'Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali AGENAS nel documento sugli “Aspetti giuridici dell'evoluzione dei rapporti interistituzionali fra Università e Regione”, dove si segnalava a proposito delle aziende ospedaliero-universitarie che “sono state riscontrate però anche delle forti difficoltà per l’affermarsi di tali strutture, molte delle quali non sono inevitabili, ma devono essere attentamente valutate dalla “società nel suo complesso” per l’effettivo incremento dei costi che queste comportano rispetto ai casi trattati in strutture ospedaliere prive del sistema universitario. Molti commentatori parlano di un “lusso sociale” importante che grava sull’intera collettività”.
 
Il “monopolio universitario” così costituito, nel caso della cessione dell’Ospedale Sant’Antonio della Azienda ULSS 6 alla Azienda Ospedaliera Universitaria di Padova, estromette inoltre le figure dei sindaci dalla partecipazione alle programmazioni sulle politiche sociosanitarie ai sensi di legge, non potendo di fatto più incidere sulle decisioni di un'azienda ospedaliero-universitaria.
Noi non abbiamo del resto la stessa sicumera di certi accademici, amministratori e politici, dato che gli eventi avversi purtroppo esistono, e come dimostra una sterminata letteratura, la causa principale è rappresentata dalla cattiva organizzazione. I miglioramenti nella sicurezza delle cure per i pazienti conseguono infatti a un costante monitoraggio e alla consapevolezza che esiste un “gap” tra le procedure e le pratiche assistenziali. Basta ricordare che uno dei punti maggiormente critici di una visione gestionale così accentrata è la grande aspirazione a un immenso Pronto Soccorso padovano (che dovrebbe ergersi nell'immaginario futuro ospedale Giustinianeo) e che ingloberebbe gli oltre 90000 accessi annui adulti attualmente in capo all'Azienda Ospedale-Università assieme ai 30000 del Sant'Antonio. Pura follia aspirare con fiducia inossidabile a un Pronto Soccorso che gestisca oltre 120000 accessi, specie in un panorama di costante riduzione di posti letto e di carenza di specialisti.
 
Come ha evidenziato una letteratura scientifica sempre più ampia, l'elevato numero di accessi in un Pronto Soccorso rappresenta un fattore importante per il rischio clinico e la corretta gestione delle cure legati all’affollamento e al sovraffollamento, specie se connessi all’incremento di accessi per patologie non acute, per pazienti pluripatologici e per pazienti anziani, soprattutto in una città come Padova già predisposta a un progressivo ulteriore invecchiamento: ritardi nei ricoveri, nelle terapie (soprattutto antibiotiche e analgesiche, ma anche domiciliari), problemi nel gestire un'enorme quantità di esami di laboratorio, di accertamenti radiologici e di consulenze, peggioramento delle condizioni di lavoro (difficoltà ad aderire sempre alle linee guida, eccessivo stress, incremento della violenza verso i sanitari), aumento degli eventi avversi, ridotta soddisfazione dei pazienti e aumento degli abbandoni.
 
Aggiungiamo poi gli studi su quanto siano rischiosi anche i cambiamenti infrastrutturali e nell’ambiente di lavoro in ambito sanitario in relazione all'espansione del proprio network operativo (nuovo bacino di utenza, nuovi sistemi di gestione), e come il disagio – ovvero riduzione del benessere lavorativo e organizzativo – sia tanto incidente quanto il burnout (la risposta negativa all'eccessiva esposizione a stress occupazionale e carichi di responsabilità) sulla qualità di vità dei professionisti, delle relazioni nelle equipe, delle prestazioni dei medici e quindi sull'errore clinico. Le Amministrazioni dovrebbero pertanto promuovere il benessere organizzativo come del resto richiamato dal Codice di condotta dei dipendenti, invece di comprometterlo con inadeguate e intempestive pianificazioni.
 
A questo punto, dubitiamo molto dei cosiddetti “manager” che affermano solo i loro punti di forza e non i rischi delle attività che gestiscono, derogandoli tout court ai sanitari in modo ingiustificato e irrazionale. Se poi la linea politica è quella che abbiamo dovuto impugnare in tribunale coi ricorsi al TAR contro il Protocollo d’intesa tra la Regione e l’Università e le clinicizzazioni, la delibera sul trasferimento del Sant'Antonio e quelle sulle assunzioni di medici non specialisti, aveva proprio ragione il prof. Roberto Burioni quando rispondeva al governatore del Veneto Luca Zaia “buona fortuna a lei in tribunale e ai veneti in Pronto Soccorso”.
 
Invece di inseguire interessi di parte e consensi politici totalmente al di fuori di una prospettiva multidimensionale, un bagno di umiltà e un'analisi approfondita della documentazione disponibile sul risk management sarebbe molto più rassicurante, soprattutto verso i pazienti che accedono tutti i giorni alle strutture sanitarie padovane.
 
Dott. Adriano Benazzato
Segretario Regionale
ANAAO ASSOMED del Veneto
 
Dott. Mirko Schipilliti
Dirigente medico di Pronto Soccorso
Segretario Aziendale
ANAAO ASSOMED AULSS 6 Euganea


22 novembre 2019
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