Governo. È di nuovo impasse. Braccio di ferro con il Quirinale su Savona all’Economia. E la Lega minaccia il ritorno alle urne

Governo. È di nuovo impasse. Braccio di ferro con il Quirinale su Savona all’Economia. E la Lega minaccia il ritorno alle urne

Governo. È di nuovo impasse. Braccio di ferro con il Quirinale su Savona all’Economia. E la Lega minaccia il ritorno alle urne
O Savona o si torna al voto. La Lega sa che una campagna elettorale incentrata contro l'establishment internazionale ed un Quirinale reo di aver impedito il cambiamento potrebbe portargli un enorme vantaggio in termini di consensi. L'intera partita sul nome di Savona si gioca su un gigantesco non detto. Da un lato si mandano messaggi rassicuranti sulla collocazione internazionale dell'Italia, mentre dall'altro si studiano exit strategy. Se questo è il piano, si rompa questo muro di ipocrisia e si giochi la partita a carte scoperte.

Quando sembrava tutto ormai fatto e, come spiegato da fonti parlamentari del M5S, si attendeva addirittura nella giornata di oggi il giuramento dei nuovi ministri al Quirinale, è di nuovo impasse. Non ci sono ancora certezze su alcune caselle, in particolare quelle riguardanti Esteri e Difesa, ma il nodo principale resta quello di Paolo Savona all'Economia. Un nome che continua a suscitare perplessità al Quirinale, ma che risulta invece irrinunciabile per la Lega.
 
Su questo Matteo Salvini è stato chiaro, non esiste un piano B, "non andremo a Bruxelles con il cappello in mano". L'umore del leader del Carroccio, dopo lo stop del Colle, viene telegraficamente sintetizzato da una frase pubblicata in serata sui suoi profili social: "Sono davvero arrabbiato". Poche parole che vengono subito appoggiate con un "like" da Luigi Di Maio. Il capo politico dei 5 stelle sa che l'intera costruzione della squadra di governo poggia sul nome scelto dalla Lega all'Economia, e fa così sentire immediatamente la sua solidarietà.
 

 
Ma fino a che punto potrà spingersi questo braccio di ferro? O Savona o si torna al voto. La Lega non ha nulla da perdere, sa che una campagna elettorale incentrata contro l'establishment internazionale ed un Quirinale reo di aver impedito il cambiamento richiesto dai cittadini, con il voto del 4 marzo, sulla politica economica del nostro Paese potrebbe portargli un enorme vantaggio in termini di consensi. Vedremo fin dove il presidente della Repubblica Sergio Mattarella vorrà spingere questa potenziale crisi istituzionale.
 
Quest'ultimo passaggio sembra il capitolo finale di una lunga storia di rapporti tesi, ed in parte incentrati su una certa dose di ipocrisie, tra il Quirinale e la compagine di governo giallo-verde.
 
A cominciare dallo scorso 23 febbraio, quando Di Maio salì al Colle incontrando il segretario generale Ugo Zampetti e chiedendo un incontro del tutto irrituale per preannunciare l’invio di una lista di ministri da sottoporre al presidente della Repubblica. Ministri che, da dettato costituzionale, dovrebbero essere nominari da presidente del Consiglio incaricato e non scelti dal capo politico di un partito prima delle elezioni.
 
Il tutto è poi proseguito con il contratto di governo. Un documento su cui, M5S e Lega, chiesero il via libera ai propri elettori, sulla piattaforma Rousseau e nei gazebo appositamente allestiti nelle piazze, prima ancora di presentarlo ufficialmente al presidente della Repubblica. Ennesimo sgarbo mal digerito da Mattarella.
 
Un nuovo capitolo è stato successivamente segnato dalla scelta del premier. "Il presidente della Repubblica non si permetterebbe mai di porre veti", spiegava Di Maio. "Il Colle non si opponga agli italiani", tuonava invece Salvini. Parole che, pur senza chiarirlo esplicitamente, lasciavano intendere che spettasse alle forze politiche l'iniziativa di nomina del nuovo capo dell'esecutivo. Potere che invece la Costituzione, all'articolo 92, riconosce unicamente al Capo dello Stato. La nomina del presidente del Consiglio è un atto presidenziale al quale viene poi aggiunta l'autorizzazione parlamentare con la fiducia votata dalle due Camere. 
 
Passiamo così alle competenze del premier. "Si discute prima delle questioni e poi degli esecutori", spiegava il capo politico del M5S, che poi aggiungeva dal Quirinale: "Il nostro vero premier è il contratto di governo". Affermazioni che non potevano non far storcere il naso a Mattarella, dal momento che l'articolo 95 della Costituzione spiega che è il presidente del Consiglio dei Ministri a dirigere la politica generale del governo e ad esserne responsabile, mantenendo l'unità di indirizzo politico. Non si profila dunque come il mero esecutore di un programma sul quale non ha avuto voce in capitolo. Da qui le perplessità anche per un profilo dallo 'scarso' peso politico come quello di Giuseppe Conte
 
E arriviamo al capitolo finale sulla lista dei ministri. Anche in questo caso la partita si gioca su alcune ipocrisie e non detti. La Costituzione attribuisce unicamente al premier incaricato la scelta della squadra di governo. Da giorni in realtà sappiamo che la lista – tranne per poche caselle – è già stata preparata da M5S e Lega. E, come se non bastasse, ora Conte dovrà farsi anche portavoce dei loro diktat su Savona. Ovviamente tutto questo viene mascherato da dichiarazioni di circostanza che lasciano intendere come la mediazione e la scelta finale sui nomi spetterà al solo premier.
 
L'insistenza sul nome dell'economista da parte della Lega e le resistenze del Quirinale sono tutte giocate su un enorme non detto. Mentre da una parte nel suo primo discorso ufficiale da presidente incaricato Conte rassicurava sulla "consapevolezza" del collocamento dell'Italia nell'Europa, dall'altra si alzava il livello del pressing giallo-verde su Paolo Savona, nome funzionale per portare avanti la loro battaglia a Bruxelles e Strasburgo sulla politica economica europea. Una strategia che potrebbe contemplare, come extrema ratio, anche la minaccia di un'uscita dell'Italia dall'euro. “Battere i pugni sul tavolo” con l’Europa “non serve a niente. Bisogna preparare un piano B per uscire dall'euro”, ha scritto Savona nel suo ultimo libro. Da qui le resistenze del Colle.
 
L'intera partita si gioca dunque su questo gigantesco non detto. Mentre si mandano messaggi rassicuranti sulla collocazione internazionale dell'Italia, si studiano possibili exit strategy dall'euro. Se questo è il reale piano di scontro, si abbia da entrambe le parti il coraggio di rompere questo muro di ipocrisia e giocare la partita a carte scoperte.
 
Giovanni Rodriquez

26 Maggio 2018

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