La minaccia di una nuova pandemia globale non è più una semplice ipotesi ma un’inevitabilità sempre più vicina, e non accadrà fra 100 anni. A lanciare l’allarme è il professor Ibrahim Abubakar, docente di malattie infettive presso l’University College London, durante un incontro del Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite (ECOSOC). “Non è una questione di se, ma di quando”, ha dichiarato, sottolineando come i sistemi sanitari mondiali siano ancora pericolosamente frammentati. Una frammentazione che, secondo Abubakar, rende i sistemi attuali inadeguati ad affrontare un fenomeno come le pandemie, per loro natura transnazionali. “Le malattie infettive non rispettano i confini. Di conseguenza, i sistemi sanitari devono garantire equità, dignità e accesso universale, ma anche avere la flessibilità necessaria per attuare politiche al di là delle frontiere,” ha affermato.
L’incontro ECOSOC si è svolto in parallelo al Forum Politico di Alto Livello (HLPF) sullo Sviluppo Sostenibile, durante il quale è stato valutato l’avanzamento verso i 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDG). Mentre i primi 16 obiettivi affrontano tematiche specifiche – dalla povertà al cambiamento climatico – il 17° mira a rafforzare le partnership globali. “Dobbiamo ripensare la cooperazione, non come un’azione transazionale, ma come un partenariato dinamico, inclusivo e proiettato al futuro,” ha dichiarato il vicepresidente dell’ECOSOC, Lok Bahadur Thapa.
Ma questa visione è ancora ben lontana dalla sua piena realizzazione. Secondo le Nazioni Unite, il divario finanziario per raggiungere gli SDG supera ormai i 4.000 miliardi di dollari all’anno. Dima Al-Khatib, direttrice dell’Ufficio per la Cooperazione Sud-Sud dell’ONU (UNOSSC), ha ribadito l’urgenza di alleanze trasversali: “Dobbiamo creare partenariati realmente trasformativi, che superino i tradizionali compartimenti stagni: governi, società civile, settore privato e istituzioni multilaterali devono collaborare in una coalizione inclusiva per lo sviluppo sostenibile”. Abubakar ha criticato l’approccio ancora prevalentemente reattivo dei sistemi sanitari globali. Anche se gli Stati membri hanno adottato un trattato sulla prevenzione pandemica, l’implementazione procede a rilento. L’accordo punta a ridurre il rischio di future crisi sanitarie, spostando l’attenzione dalla risposta all’anticipazione.
Un approccio che deve valere per tutte le sfide sanitarie, ha aggiunto Mandeep Dhaliwal, direttrice del settore Salute presso il Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP). “È importante investire tanto nella prevenzione quanto nella cura, ed è più conveniente, perché… si agisce alla fonte,” ha detto. Tuttavia, ha riconosciuto una difficoltà: “Quando la prevenzione funziona bene, i risultati tangibili spesso non si vedono”. Per Dhaliwal e Abubakar, la salute non può essere considerata separatamente dagli altri ambiti. “La salute non è un comparto isolato… i fattori che la influenzano si trovano spesso al di fuori del settore sanitario,” ha osservato Dhaliwal, citando ad esempio l’inquinamento atmosferico. Anche Tony Ott, professore di scienze agrarie alla Pennsylvania State University, ha ribadito il concetto: “Troppo spesso abbiamo trattato la salute come una conseguenza, qualcosa che migliora solo se tutto il resto funziona. Ora sappiamo che invece è il punto di partenza”. Questo approccio richiede alleanze intersettoriali forti, in cui la salute venga considerata in tutte le politiche: dall’istruzione all’ambiente, dalla casa all’occupazione.
Con oltre 123 milioni di migranti e sfollati nel mondo, le persone in movimento restano spesso escluse dai servizi di prevenzione e sono tra le più colpite dalle debolezze dei sistemi. “Le migrazioni e gli sfollamenti, siano essi causati da conflitti, cambiamenti climatici o fattori economici, sono fattori determinanti per la salute,” ha affermato Abubakar. Ha poi ammonito: “Escludere qualsiasi comunità, a prescindere dallo status legale, crea un anello debole che può compromettere la protezione di tutti.” Infine, Abubakar ha lanciato un appello a includere le comunità nei processi decisionali. “Il futuro che immagino è fatto di partnership globali, senza distinzioni di reddito, coinvolgendo pubblico e privato, mondo accademico e società civile. E in questo quadro, le comunità devono essere al centro… non solo come beneficiarie, ma come co-creatrici delle soluzioni”. Mentre il mondo affronta crisi sovrapposte – sanitarie, ambientali, sociali – proprio le comunità potrebbero rappresentare la chiave per una trasformazione reale.