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Servizi di salute mentale credibili e autorevoli: quale proposta?

26 GEN -

Gentile Direttore,
riprendo alcuni contenuti dei due interventi di Ivan Cavicchi del 28 novembre 2022 e del 13 gennaio 2023 pubblicati su questo Quotidiano. E, in particolare, il tema del rapporto tra credibilità della salute mentale, sua legittimazione e ottenimento dei fondi. Chiarisco che faccio parte dei 91 firmatari l’Appello alle Istituzioni, dove si denuncia la crisi grave in cui versa la salute mentale e si chiedono “risorse urgenti” per poter finanziare un “piano straordinario di assunzioni”.

Pur riconoscendone l’importanza e apprezzandone l’intento di richiamare l’attenzione sul tema, ritengo questa azione insufficiente e a rischio di essere un’ennesima vox clamantis in deserto, se non è accompagnata da una proposta di miglioramento di alcuni modi di operare che finora ha avuto la salute mentale, al fine di guadagnare quella credibilità e quella legittimazione - non politica ma scientifica - che non abbiamo mai avuto e che ci occorre come ossigeno per poter convincere i nostri interlocutori che quanto chiediamo ha un corrispettivo in termini di servizi innovativi, moderni e rispondenti ai bisogni.

E quindi, dal momento che questo dibattito ci ha anche riallenato a farci domande, chiediamoci: Cosa si aspettano da noi le famiglie, i pazienti e le stesse Direzioni Generali o i vari Assessorati, che rappresenti quel valore aggiunto, tale da farci superare la posizione decennale di questuanti e traghettarci in quella di offerenti?

A parere di chi scrive, anche in base alla propria esperienza, oggi in salute mentale viene richiesto prima di tutto un alto livello di competenza, espressa da operatori non ideologici, che mettono al corrente i pazienti e familiari del loro problema in modo accurato e alla luce delle conoscenze più aggiornate; che siano capaci di far capire la gravità della situazione e, nel contempo, infondere speranza e prospettiva; che informino sul ventaglio di trattamenti disponibili; che sappiano spiegare quali offrire e perché; che siano chiari sugli esiti attesi e sugli indicatori con i quali questi ultimi saranno misurati; che conoscano l’efficacia dei trattamenti e sappiano far comprendere i motivi per i quali vengono proposti; che siano in grado di fare riferimento ad uno stesso paradigma e utilizzino lo stesso metodo di intervento, a prescindere dal servizio di appartenenza, soprattutto per quei cittadini che hanno la sfortuna di imbattersi in diverse strutture del Dipartimento per problematiche complesse e rischiano di trovare comportamenti operativi del tutto difformi tra un servizio ed un altro.

Operatori che riescono a comunicare tra loro velocemente, senza aspettare che sia sempre l’altro collega (quello delle DP, quello della UONPIA, quello del CSM….) a fare il primo passo, e che non fanno gravare sul paziente e sui familiari il compito impossibile di mettere in contatto due o più professionisti o di “farli andare d’accordo”.

Operatori aggiornati, che studiano, che sono entusiasti di imparare dalle ultime acquisizioni e Responsabili di servizio che si occupano della crescita professionale dei loro operatori, non inseguendo più i ruoli (non so perché tanto ambiti, dato che non è il nostro lavoro) di politici o di amministratori, molto in voga nei decenni passati, e non abdicando alla loro funzione di governo clinico.

A questo proposito, in nessuna altra branca, come in quella della psichiatria, si è tralasciato di mettere al centro della programmazione e gestione dei servizi sanitari i bisogni dei cittadini e di valorizzare, nel contempo, il ruolo e la responsabilità degli operatori sanitari, al fine di garantire i migliori risultati possibili in termini salute. In nessuna altra branca della medicina si è stati tanto allergici all’impiego di metodologie e strumenti, quali le Linee guida e i percorsi assistenziali basati su prove di efficacia, la valorizzazione del personale e la relativa formazione, l' integrazione disciplinare e multiprofessionale e la valutazione sistematica delle performance.

Tutto ciò implica anche l’evoluzione nei ruoli e nelle responsabilità delle figure non mediche, che non possono più rivestire un ruolo “ancillare” rispetto alle figure mediche, ma devono acquisire più autonomia e, contestualmente, maggiore responsabilità nei processi di trattamento. Da qui, i necessari cambiamenti nella loro formazione.

La scarsa attenzione attribuita in questi decenni ai punti citati ha contribuito al radicamento di stili comportamentali e comunicativi non appropriati nei confronti dei pazienti, che però non vengono affrontati direttamente con chi né è l’agente. E qui si apre un'altra grave criticità nell’area della competenza professionale del personale che opera nei servizi di salute mentale: si chiude un’ occhio anche in presenza di stili di lavoro eclatantemente non etici né professionali, ritenendoli non un grave scostamento dalle indicazioni deontologiche e scientifiche, ma un “modo di essere “ dell’operatore.

Che, come tale, va rispettato, anche se lede il diritto dei pazienti a ricevere cure efficaci e ad essere trattati come persone. C’è quasi un sacro pudore da parte dei responsabili, o comunque di chi sa come si dovrebbe operare, ad intervenire con un feedback correttivo, sia per la fatica di abbandonare la propria “area di confort” sia per timore di alienarsi “la simpatia” del collega e di rendersi la vita lavorativa quotidiana scomoda e difficile.

Inoltre, la difesa dell’ideologia e la sottovalutazione dell’importanza della competenza professionale ha fatto sì che i servizi di salute mentale fossero percepiti dall’opinione pubblica, ma anche da altri settori della sanità (vedi i colleghi ospedalieri), come servizi non sanitari (se si intende per sanitario un servizio che tratta una malattia), ma come luoghi di ascolto, di relazioni più o meno general generiche, di pratiche oscure e criptiche, mai spiegate e mai sintetizzate con chiarezza, dove più che altro si parla ma non si cura e dove è ammessa l’estrema disomogeneità di impostazioni e di visioni.

Tale percezione deriva dalla particolare genesi della psichiatria di comunità nel nostro Paese, scaturita più dal bisogno di riconoscere alle persone con malattia mentale i diritti civili, il diritto alla libertà e all’inclusione sociale, che dall’obbligo etico di cercare il modo migliore di curare una malattia. Non ha contribuito a dare un’idea uniforme e chiara della psichiatria di comunità e del suo modello di intervento anche l’estrema frammentazione del corpus medico nel campo, spaccato da sempre tra i tre principali modelli che hanno caratterizzato il settore (biomedico, psicologico e sociale) e che lo hanno depotenziato, perché lo hanno conflittualmente diviso.

Si è arrivati addirittura a dare un colore politico ai tre modelli: quello biomedico di destra, quello sociale di sinistra, quello psicologico….. a seconda. E non se ne esce ancora, anche se è stata dimostrata la profonda connessione tra ambiente, geni, comportamenti, emozioni e stili cognitivi e le influenze di eventi ambientali sul neuro sviluppo, tanto da rendere obsoleta l’appartenenza degli psichiatri alle diverse correnti e obbligata la presa in cura della persona nella sua dimensione olistica e complessiva.

Un elemento che ha contribuito al riduzionismo dell’intervento dei servizi di salute mentale, connotandoli come “dispenser di psicofarmaci”, è stata la posizione subordinata dei trattamenti psicosociali rispetto a quelli farmacologici e la superficialità banalizzante con la quale si è trattata, ed è ancora trattata, la riabilitazione psichiatrica nel nostro Paese, assimilata di volta in volta ad un generico fare, ad attività afinalistiche e uguali per tutti i pazienti, a strutture murarie (CD e residenze), che per il solo fatto di essere “territoriali” erano di default “riabilitative”, e ad inserimenti lavorativi più simili a parcheggi che a vere inclusioni sociali.

La riabilitazione psichiatrica, a differenza dalla riabilitazione fisica, non ha mai avuto in Italia la dignità di una tecnica e per troppi anni è stata l’intervento per tutte le stagioni, utilizzata camaleonticamente in contesti che avevano tutt’altra finalità e da soggetti con competenze e formazione lontani da quelle richieste. Come scrive Anthony (2003) , spesso si è assistito allo “sviluppo di setting psichiatrici non tradizionali con il progetto di utilizzare tecniche psichiatriche tradizionali attuate da personale formato in modo tradizionale”.

Pertanto, continuando con la buona abitudine di farsi domande, ci si può chiedere: Perché le DG e le Regioni dovrebbero finanziare servizi dove sono sufficienti, per curare una malattia complessa e grave come quella mentale, la relazione, il parlare, l’ascoltare, il coinvolgere in attività generiche, l’intrattenere, l’accompagnare, il contenere, l’empatizzare, etc., dato che basta un po’ di disponibilità umana, un luogo dove radunare i pazienti e indurli a fare qualcosa o un generica accoglienza per attuare una psichiatria senza manicomi?

Per queste attività non sono necessarie né risorse né fondi, ma solo specifiche qualità umane, un po’ di pazienza e un buon carattere. Il bello è che la” sdentata” l’abbiamo già presa da anni in questo senso, dato che ormai anche un “non addetto ai lavori” capirebbe che oggi occuparsi del disturbo psichiatrico implica possedere alte competenze professionali, “prendersi cura” in modo continuativo del personale ed esercitare una leadership motivazionale e trasformativa.

Una proposta credibile dovrebbe vedere tutti gli psichiatri convergere su pochi punti chiari: il riconoscimento del diritto dei pazienti a trattamenti efficaci e a personale competente, oltre che dei diritti civili; il modello multidimensionale di malattia mentale; il modello integrato di intervento e la necessità di modificare radicalmente l’assetto dipartimentale; il valore della tempestività negli interventi e la rimozione delle barriere burocratiche che rendono spesso gli accessi lenti, farraginosi e respingenti; il ricorso agli interventi supportati dalle migliori evidenze e la riappropriazione da parte delle figure apicali del governo clinico.

E’ necessario che la psichiatria di comunità abbandoni quell’identità incoerente e fumosa, dove è vero tutto e il suo contrario, per acquisire una dignità tecnica, intendendo per “tecnica” non la standardizzazione e l’omogeneizzazione degli interventi o l’azzeramento della creatività e della componente umana, ma, al contrario, l’acquisizione di strumenti utili proprio a contrastare i fenomeni di disumanizzazione e di “sine cura”, spesso presenti nei nostri servizi.

Finisco con una frase di M. Spivak (1987) : “I pazienti senza speranza sono il risultato di operatori senza speranza perché privi di strumenti e di supporti” . E questo non è un problema risolvibile solo con l’aumento delle risorse umane.

Paola Carozza

Direttore DAISMDP (Dipartimento Assistenziale Integrato Salute Mentale e Dipendenze Patologiche), Ferrara
Deputy Vice President Europa WAPR (World Association Psychosocial Rehabilitation)



26 gennaio 2023
© Riproduzione riservata

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