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Medici di famiglia: la storia di una crisi annunciata. In 20 anni il loro numero è crollato. I pochi rimasti sono più anziani, con più pazienti da seguire e il sistema sta andando in tilt. E si torna a parlare di dipendenza

di Luciano Fassari

I rumors, sempre più crescenti, raccontano di un imminente provvedimento del Ministro della Salute, Orazio Schillaci in tandem con le Regioni che si annuncia come una rivoluzione per la categoria e per i cittadini. Ma cerchiamo di capire perché a distanza di anni si è tornati a parlare di dipendenza e perché tra politica, sindacati e cittadini il nostro pilastro delle cure primarie sta esplodendo.

20 GEN -

Nelle ultime settimane si è tornati a parlare a gran voce della dipendenza per i medici di famiglia. I rumors, sempre più crescenti, raccontano di un imminente provvedimento del Ministro della Salute, Orazio Schillaci che si annuncia come una rivoluzione per la categoria e per i cittadini. Il Piano, a quanto si apprende, messo su insieme ad un pool ristretto di regioni prevederebbe oltre all’istituzione di una vera e propria scuola di specializzazione (oggi ci sono corsi di formazione gestiti dalle Regioni) il fatto che i nuovi medici diventino subito dipendenti del Ssn, mentre agli altri dovrebbe essere consentito di restare in rapporto di convenzione a patto di garantire un minimo di 14-16 ore nelle strutture territoriali, in primis le Case della Comunità su cui tante risorse del Pnrr sono state investite ma che ancora stentano a decollare proprio a causa della carenza di professionisti.

Un piano, insomma, che ricalcherebbe da vicino quello già presentato dall’ex Ministro Speranza ma che poi a causa della caduta del Governo Draghi rimase nei cassetti di Lungotevere Ripa. In ogni caso nelle prossime settimane se ne dovrebbe sapere di più.

Ma il fatto che si parli di dipendenza per i medici di famiglia (vedremo poi anche se per i pediatri e gli specialisti ambulatoriali) non è una novità soprattutto negli ultimi 20 anni dove i numeri parlano di una crisi ineluttabile. Tra il 2002 e il 2022 secondo i dati del Ministero il numero dei medici di famiglia è sceso dai 46.907 del 2002 ai 39.366 del 2022, ovvero -16%. Insomma, non c’è stato un ricambio generazionale. Basti pensare che 20 anni fa appena il 12,5% dei Mmg aveva oltre 27 anni di anzianità, una percentuale che oggi è del 72%.

Prima conseguenza è stato l’aumento del numero medio di pazienti per medico che è passato dai 1.100 di vent’anni fa agli attuali 1.301. Inoltre, oggi quasi il 50% dei Mmg supera il massimale di 1.500 pazienti (con punte del 70% in Lombardia), nel 2002 era appena il 15%. Numeri che fanno capire bene come sia facile ingolfare il lavoro dei professionisti che devono seguire sempre più pazienti i quali, dato anche il progressivo invecchiamento della popolazione, sono sempre più spesso alle prese con acciacchi e malanni.

Ma perché la professione è andata in crisi? Le motivazioni sono plurime, non basta certamente un articolo di giornale ma cerchiamo di capirne di più. I cambiamenti sociali nei pazienti con l’arrivo del web (vedi il fenomeno Dr. Google che fa parte ormai del nostro quotidiano), lo sviluppo delle comunicazioni (dalle mail a whatsapp per esempio), l’aumento del carico burocratico, gli scarsi investimenti (solo negli ultimi 10 anni si è perso un punto di spesa per l’assistenza medico generica).

C’è poi il problema dell’attrattività, i giovani medici vedono la medicina generale come un ripiego anche perché la borsa per il corso di formazione è assai ridotta rispetto ai pari età che frequentano una specializzazione universitaria. Non dimentichiamo anche il fatto dell’impossibilità di fare carriera, l'assenza di tutele su malattia, le spese per lo studio, la tredicesima che non c'è e più in generale la crisi di tutta la professione medica che, come altre professioni (anche i giornalisti per esempio), ha perso la sua autorevolezza agli occhi dei cittadini (basti osservare i numerosi e quotidiani episodi di aggressione).

In questo scenario è poi arrivata la pandemia da Covid durante la quale tutte le défaillance della sanità territoriale (non solo dei medici di famiglia) hanno fatto esplodere la questione. Non ha giovato all’immagine della categoria, per esempio, il fatto che gli studi fossero chiusi mentre gli ospedali erano aperti o tutta la diatriba sui compensi per effettuare i tamponi. Ma forse è passato sotto traccia che anche tra i medici di famiglia il numero di coloro che hanno perso la vita per curare i loro i pazienti durante la pandemia è stato elevato.

Ma sarebbe facile scaricare esclusivamente sui medici di famiglia tutti i mali della nostra sanità. Sono parecchi quelli che al di là degli orari di apertura degli studi (che vanno da un minimo di 5 ore a settimana fino a 500 assistiti fino a 18 ore per i massimalisti) lavorano incessantemente tutto il giorno tra burocrazia, interazione via smartphone con i pazienti e visite a domicilio o nelle Rsa. Insomma, è troppo semplice scaricare su di loro tutte le responsabilità.

Il punto però che gioca a sfavore della categoria è che in un’epoca in cui tutto dev’essere tracciato e misurabile gran parte di quest’attività non è conteggiata. E quindi basta che il medico non risponda ad una chiamata, ad una mail o ad un whatsapp (che possono arrivare ad ogni ora) ed ecco che il Mmg diventa uno scansafatiche che lavora poche ore a settimana e fa solo ricette. In alcuni casi sarà pur vero ma generalizzare vuol dire guardare con superficialità al problema.

Bene, come si diceva prima l’idea che però qualcosa non andasse e che bisognava cambiare il rapporto dei medici di medicina generale con il Ssn non è nuova. Senza andare troppo indietro nel tempo una decina di anni fa ci provo l’ex Ministro della Salute Renato Balduzzi che introdusse delle norme per integrare il lavoro dei Mmg attraverso le Aft (luoghi non fisici dove i Mmg devono organizzare il lavoro sul proprio territorio) e spingerli ancora di più a lavorare nelle Unità complesse di cure primarie (Uccp), poi evolutesi (per farla semplice) dapprima in Case della Salute o oggi in Case della Comunità.

Si è poi puntato anche negli anni sull’apertura degli ambulatori nei weekend, ad introdurre criteri di appropriatezza nelle prescrizioni e da ultimo con l’evoluzione del cosiddetto ruolo unico, potenziato anche nell’ultima convenzione firmata l’anno scorso dove si prevede che una parte dell’orario sia dedicato alle attività nei presidi territoriali presenti nei distretti.

Il problema di quest’ultima convenzione però è che al salire del numero degli assistiti scendono le ore da dedicare alle attività nei presidi. E come abbiamo visto essendo massimalisti ormai la metà dei Mmg sono effettivamente pochi quelli che possono far marciare le Case della Comunità e gli altri servizi territoriali.

Anche la categoria però ha le sue colpe. Dapprima la difficoltà a cambiare le proprie abitudini che ne ha fornito un'immagine immobile e restia al cambiamento. Per troppo tempo è stato difficile far integrare i professionisti tra di loro in modo da fare rete, ingrandire e ammodernare gli studi, ampliare gli orari di apertura e trovare dei sistemi di misurazione dell’attività lavorativa trasparenti.


E poi ci sono stati i famigerati 235 mln stanziati nel 2020 per la diagnostica di primo livello di cui però si sono perse le tracce e che in ogni caso secondo l’ultimo decreto attuativo prioritariamente saranno assegnati alle Case della Comunità. Col Pnrr sono state anche aumentate le borse e poi con alcuni provvedimenti si è aperta la possibilità di far lavorare i corsisti. Non da ultimo i sindacati hanno stretto alleanza con le Coop e l'Enpam è sceso in campo per ammodernare gli studi. Rispetto a 20 anni fa di progressi ce ne sono stati, ma evidentemente tutto ciò non è sufficiente e il sistema ormai sta andando in tilt.

Ed ecco quindi che si è arrivati ad oggi nuovamente a parlare di dipendenza vista come la soluzione finale. Le incognite anche qui sono però parecchie e se si vorrà intraprendere questa strada bisognerà farlo con cura. Bisognerà risolvere la questione del rapporto fiduciario che sarebbe un errore abbandonare e anche come garantire l’assistenza nelle aree cosiddette disagiate. E poi in prospettiva bisognerà realizzare molte più Case della Comunità di quelle previste dal Pnrr (a proposito per ora ne funzionano appena il 30% di quelle previste). Ci sarà poi da fare un’analisi dei costi, capire che ruolo avrà l'Enpam e come gestire tutta la fase di transizione. E soprattutto si dovranno spiegare le novità al cittadino che, anche se è ormai diventato pericolosamente un piccolo medico di sé stesso, è totalmente disinformato sul funzionamento dei servizi. Infine, bisognerà vedere l’impatto politico di una riforma del genere. I medici di famiglia storicamente per la loro presenza capillare sul territorio e per la possibilità di rivolgersi direttamente ai cittadini hanno sempre avuto un forte impatto sulle comunità (e quindi sui voti).

Vedremo come andrà a finire…

Luciano Fassari



20 gennaio 2025
© Riproduzione riservata

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