Il suicidio di un paziente psichiatrico rappresenta per medici e infermieri uno dei momenti più delicati, sia sul piano umano sia giuridico. Una recente sentenza della Corte d’appello di Venezia, relativa a un cinquantenne ricoverato a Padova, offre spunti concreti sulla gestione del rischio autolesivo e sulla responsabilità civile e penale degli operatori.
Il gesto estremo di un padre di famiglia
Nel dicembre 2020, la moglie e le due figlie del paziente hanno chiesto il risarcimento danni all’Azienda ospedaliera, ritenendo che l’omessa vigilanza durante il ricovero avesse favorito il gesto estremo. Il paziente, infatti, aveva subito un danno anossico – mancanza di ossigeno al cervello – ed era morto dopo alcuni mesi di coma. In primo grado, il tribunale ha riconosciuto un nesso tra la disponibilità di materiale «astrattamente idoneo» al suicidio e il danno subito, evidenziando al contempo che la condotta diagnostica e terapeutica del personale non era censurabile.
I rischi civili e penali richiamati dal caso
Da un punto di vista civilistico, il caso si inserisce nell’alveo dell’Art.2043 del Codice Civile (“Risarcimento per fatto illecito”), che obbliga a risarcire il danno ingiusto derivante da dolo o colpa, e dell’Art.1218 dello stesso codice (“Responsabilità del debitore”),che estende la responsabilità alla struttura quando l’organizzazione o le carenze ambientali contribuiscono al danno. La sentenza d’appello ha confermato la responsabilità dell’Azienda, riducendo però al 20 per cento quella del personale: secondo i giudici, il paziente era determinato a compiere l’atto autolesivo con qualsiasi mezzo disponibile, attenuando la colpa degli operatori.
Sul piano penale, benché in questo caso non sia stata contestata una responsabilità specifica, il riferimento da farsi è all’Art.589 del Codice Penale, che punisce l’omicidio colposo. La giurisprudenza distingue tra la libertà autonoma del paziente e la negligenza concreta degli operatori: se la disponibilità di strumenti pericolosi incide sul nesso causale, la responsabilità può emergere, ma la determinazione del paziente può ridurne il peso.
Il risarcimento
La sentenza ha quantificato il risarcimento complessivo in 146.216 euro: 41.157 euro alla moglie, 56.591 euro alla figlia maggiore e 30.250,97 euro alla minore, al netto di quanto già corrisposto. Il verdetto sottolinea come anche la migliore gestione clinica non possa esonerare del tutto la struttura quando permangono vulnerabilità organizzative o carenze strutturali.
Cosa emerge dal caso
Per la pratica clinica, il caso offre due indicazioni chiare.
Primo, la gestione dei materiali e la sicurezza del reparto non sono dettagli secondari: la disponibilità di oggetti potenzialmente pericolosi può incidere sul nesso causale e quindi sulla responsabilità civile.
Secondo, la formazione e la vigilanza continua del personale restano strumenti fondamentali di prevenzione, in grado di mitigare il rischio e le eventuali conseguenze giuridiche.
In sintesi, la vicenda di Padova mostra che la responsabilità civile del medico psichiatra non è mai esclusiva: interagisce con la struttura, le procedure e la determinazione del paziente. Conoscere i confini tra colpa individuale e organizzativa, così come tra responsabilità civile e penale, è essenziale per gestire correttamente il rischio clinico.
Un caso, questo, che invita tutti a riflettere, in primis i diretti interessati, anche su un ulteriore aspetto, di certo non marginale: quello della verifica periodica delle coperture assicurative di responsabilità professionale e tutela legale, strumenti indispensabili per tutelare sé stessi e la struttura in scenari complessi come quello della psichiatria.
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