Gentile Direttore,
la recente pandemia ha prodotto un ulteriore crollo della già difficile situazione economica dei fisioterapisti (e delle altre professioni sanitarie come gli infermieri). Il settore privato ha risentito effetti a dir poco catastrofici, con il fallimento di diversi studi professionali.
Mentre non mi risulta di aver letto anche su queste pagine interventi dettagliati sul calo dei guadagni dei fisioterapisti italiani libero professionisti, l’associazione Svizzera di fisioterapia (la Svizzera è considerata da molti come uno dei posti verso cui fuggire per fare carriera) pubblicava due anni fa un report in cui dichiarava che il primo lockdown aveva colpito duramente la fisioterapia, “portando a crolli delle cifre d’affari fino al 100%. Dal gennaio al settembre 2020 i fisioterapisti hanno visto calare i ricavi di circa 95 milioni di franchi rispetto ai volumi previsti(…). Tutt’oggi, sia il carico di lavoro sia i ricavi sono ancora al di sotto dei livelli pre-pandemia e così resteranno ancora per molto tempo.” (fonte: Physioswiss).
Se le cose sono andate male in Svizzera durante e dopo la pandemia, cosa è successo alle piccole attività di fisioterapia private italiane? Tutti lo possiamo immaginare. E se le cose hanno iniziato con il tempo ad andare male nel privato, anche la situazione dei dipendenti pubblici è andata solo a peggiorare. Gli stipendi dei dipendenti pubblici non sono adeguati all’attuale costo della vita, inoltre sono vincolati al divieto di cumulo di incarichi e all’esclusività. È assente una concreta opportunità di migliorare i propri guadagni lavorando di più o con maggiore specializzazione all’interno delle aziende sanitarie stesse (ad esempio, il possesso di un master universitario specialistico non garantisce un maggior guadagno).
Il lavoro di dipendente pubblico ormai non è più considerabile come il contesto “sicuro”. Con uno stipendio attorno ai 1.500 euro, molti fisioterapisti dipendenti del Ssn hanno iniziato ad indebitarsi. I conti sono facili da fare. La spesa media mensile per consumi delle famiglie residenti nel 2021 corrispondeva a 2.437 euro (fonte ISTAT). Il decreto Energia, con l’art. 13 del D.L. n. 34/2023 (Decreto bollette/energia), ha eliminato il vincolo del cumulo di incarichi per i dipendenti pubblici. Il dispositivo ha un termine temporale perché l’esclusività delle professioni sanitarie è sancita nella Costituzione. Ma in ogni caso, interviene per fortuna in una troppo silenziosa situazione di agonia economica dei dipendenti pubblici e potrebbe aiutare numerose famiglie (molte con figli !) ad evitare di indebitarsi.
Con il decreto energia il legislatore riconosce pertanto che un’urgenza ci sia anche per i dipendenti pubblici. Ma qual è il punto? È che anche se è stato rimosso il vincolo del cumulo di incarichi, non è stato al contempo rimosso il criterio dell’esclusività e i dipendenti devono fare domanda di autorizzazione alle proprie aziende per usufruire dell’opportunità prevista. Questo è corretto, ma cosa sta succedendo? Che mentre alcune aziende hanno già emesso delle proprie procedure per la libera professione (ad es. ULSS 2 Marca Trevigiana), altre congelano le richieste di autorizzazione in quanto attendono diligentemente e dalla medesima Regione, le previste “linee guida”.
Così un decreto legge emergenziale, entrato in vigore il 31/03/2023 “Misure urgenti a sostegno delle famiglie e delle imprese (…)” tarda a dare i suoi effetti. Non avrebbe senso autorizzare i dipendenti in modo semplice e immediato e poi, con i tempi delle Regioni, adattare in corso d’opera le autorizzazioni concesse sottoponendo ai richiedenti le eventuali autocertificazioni?
Fonti:
Dr Simone Patuzzo
Fisioterapista, Dirigente Nursing Up Aoui Verona