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Il Pnrr va sostenuto, ma servono dati certi e rigore metodologico

di Marcello Bozzi

20 MAG - Gentile Direttore,
anziché salire sul carro dei “detrattori” preferisco la concettualizzazione e l’analisi, con l’auspicio dell’attenzione da parte degli stake-holder interessati.
Concentro l’attenzione sulla Case di Comunità (e alle necessità di infermieri per il funzionamento delle stesse), seguendo lo schema delle schede gentilmente messe a disposizione da Quotidiano Sanità, con successive brevi dissertazioni su 2 argomenti collegati.
 
Le Case di Comunità – (ma non avevamo già le “case della salute”?) – assolutamente condivisibile il principio enunciato “dove il cittadino può trovare una risposta adeguata alle diverse esigenze sanitarie o socio-sanitarie, con la presenza di MMG/PLS/Infermieri …”
 
Ne vengono previste 1.288 (1/50.000 abitanti). Da capire:
a. i criteri distributivi, tenuto conto delle variabili “di contesto”, riportate nella tabella seguente ed i possibili accordi inter-comunali;

 
b. i modelli organizzativi ed i sistemi di cura ed assistenza (non è “un’attività in tandem” come sostenuto da alcuni, ma una integrazione inter-professionale, con un impianto organizzativo interamente da ri-costruire, insieme al sistema delle cure primarie). Il fine è quello di implementare le attività di assistenza domiciliare (rif. DL 34/2020) e a favorire la presa in carico sia delle persone a rischio fragilità / disabilità / cronicità (il 3,7% delle persone da 65 a 74 aa e il 7% della popolazione con età > 75 aa - rif. Scaccabarozzi) per un totale di 745.889 persone su 13.859.090), sia i circa 14 mln di persone, al momento in salute, ricomprese nella fascia di età > 65 aa, per le attività di promozione ed educazione alla salute e agli stili di vita sani, nell’ambito di progetti, percorsi e processi, definiti e condivisi con i MMG/PLS). Sta qui la differenza tra “prendersi cura” e “prendersi in carico”;
 
c. le necessità di risorse assistenziali (9.600 infermieri di comunità e famiglia, che vanno ad aggiungersi ai 10.500 infermieri necessari per l’implementazione dei pl di TI ed ai circa 3.100 infermieri necessari per la riqualificazione dei pl di SI, per un totale di oltre 23.000 infermieri – rif. DL 34/2020);
 
d. l’ipotesi di 96.088 infermieri disponibili dal 2027 rimane solo una ipotesi (il dato non è corretto in quanto il totale dei laureati non può scaturire dalla sommatoria dei posti messi a bando fino all’abilitazione del 2027, in quanto ci sono gli abbandoni, i fuori corso, etc.);
 
e. la stima di 26.018 infermieri pensionandi nel periodo 2020/2026 – I valori stimati presumibilmente sono in difetto, tenuto conto anche del fatto che il pensionamento non avviene all’età di 67 anni, come riportato, bensì ad una età più bassa di circa 4 anni; inoltre al 1 gen 2018 risultano n. 18.617 infermieri ricompresi nella fascia di servizio da 35 a 40 anni (i 2/3 – circa 13.000 già in quiescenza) e 65.000 ricompresi nella fascia di servizio da 26 a 35 anni (per una stima di circa 35.000 infermieri in quiescenza nel periodo 2020/2026 – fonte: min Salute);
 
f. a titolo conoscitivo (e per le necessarie comparazioni) nel periodo 2014-2018 sono usciti per pensionamento (SSN) 37.744 infermieri e ne sono stati assunti 37.731 (fonte MEF);
 
g. i neo-laureati (circa 50.000 nel periodo 2014-2018) hanno garantito il turnover e la copertura dei posti nelle strutture private (ospedaliere e residenziali);
 
h. potrebbe risultare utile conoscere i dati precisi relativamente alle assunzioni collegate al DL 34/2020 (TI/SI/Infermiere di comunità) e alle relative destinazioni, con la forte possibilità di riscontrare un utilizzo privilegiato per parziali compensazioni delle carenze di organici accumulate negli anni;
 
i. prima ancora è necessario definire le reali necessità criteri e standard per la determinazione delle dotazioni organiche (ospedali / territorio / residenzialità) e per la strutturazione degli staffing assistenziali, tenuto conto dei nuovi bisogni della popolazione e delle nuove esigenze di funzionamento delle strutture;
 
j. servono dati certi e non “ipotesi” ed è necessario affrontare la questione in maniera completa, evitando gli errori del passato (mettere “toppe” non serve a nulla … e spesso è maggiormente oneroso!), tenendo ben presente che ad un sistema assistenziale carente corrisponde sempre un grosso rischio per i pazienti.
 
Le altre argomentazioni collegate, citate in premessa, riguardano:
Il “sistema ospedali” – va rimesso mano al DM 70/2015 (con la previsione degli “Ospedali di Comunità” nell’ambito del sistema dei servizi territoriali?), non tanto come “revisione”, quanto come “verifica dell’applicazione”, con il massimo rigore metodologico, anche per le importanti implicazioni riguardanti le dotazioni organiche di tutte le figure professionali. Fino ad oggi lo sviluppo è sempre stato verso “il nuovo”, senza interventi (o interventi minimali) nelle organizzazioni esistenti.
 
Una precedente nota riportata da QS (Per la sanità le vere priorità non sono i finanziamenti ma la riorganizzazione del sistema) evidenziava appieno le storture presenti e le pesanti eccedenze, con l’assoluta necessità di rivedere l’organizzazione del sistema ospedaliero.
 
3. La riorganizzazione del sistema delle professioni sanitarie – sono troppe ed è giunto il momento di ripensare l’articolazione delle stesse, i percorsi formativi di I e II livello, le specializzazioni ed i percorsi di carriera, in linea con quanto avviene nei Paesi avanzati, possibilmente senza “paletti” da parte di altre famiglie professionali che ostacolano la crescita e lo sviluppo delle professioni sanitarie, per il mantenimento di un qualcosa che non c’è più (spesso a loro insaputa). E’ necessario ripensare urgentemente anche il percorso formativo e il profilo professionale dell’OSS (vecchio di 20 anni), con una uniformità nazionale e con una chiara definizione della governance (unica) nell’ambito dei singoli contesti operativi.
 
Il richiamo ai livelli ministeriali è molto forte (parte tecnica e parte politica) per le incidenze pesantissime nella programmazione ed organizzazione dei servizi in risposta ai bisogni di salute della popolazione e al funzionamento delle strutture (“Il recovery-plan deve essere l’occasione per ripensare e valorizzare il sistema formativo delle professioni sanitarie”).
 
L’auspicio è che il recovery plan sia l’occasione per ripensare l’intero sistema, a partire dall’analisi attenta e rigorosa dell’esistente, per una riorganizzazione vera dell’intero sistema (… e se dovesse necessitare l’applicazione del “modello Figliuolo” … proviamoci!).
Tab. 1
 
Marcello Bozzi
Segretario ANDPROSAN – associata COSMED
 
 
 
 
  


20 maggio 2021
© Riproduzione riservata

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