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Salute mentale: ritrovare il coraggio e la condivisione politica e sociale dei tempi di Basaglia

di Girolamo Digilio

19 LUG - Gentile Direttore,
ho letto con molto interesse il documento del Collegio Nazionale dei Dipartimenti di Salute Mentale sulla recente Conferenza nazionale per la Salute mentale per la quale si parla di “falsa partenza” e condivido gran parte dei principi enunciati, delle considerazioni svolte e delle proposte avanzate. C’è un punto tuttavia che, a mio avviso, meriterebbe di essere ulteriormente approfondito ed è quello della coerenza fra la enunciazione di principi, di progetti e di proposte e i comportamenti personali e professionali, un punto che molto spesso marca drammaticamente la distanza fra il dire e il fare.
 
La questione assume una spiccata valenza etica e riguarda non solo il ceto politico in quanto detentore di un decisivo potere esecutivo ma anche, nelle sue scelte quotidiane, ciascuno di noi, in quanto cittadino, utente dei servizi, operatore o professionista.
 
Nella storia del movimento che, intorno a Franco Basaglia, ha portato ad una trasformazione radicale della scienza e della pratica della psichiatria, alla chiusura dei manicomi e alla costruzione degli assi portanti dei DSM spiccano i comportamenti di numerose personalità che in un contesto assai difficile, operando all’interno del sistema con coraggio e grande tenacia riuscirono a dimostrare la superiorità della presa in cura globale rispetto alla cura intesa come internamento e repressione del paziente e a imporre la concezione della salute mentale di comunità.
 
Fra i protagonisti di questo movimento culturale che ha aperto prospettive di superamento del pregiudizio e ha restituito la dignità alle persone con sofferenza mentale, vanno ricordati con particolare gratitudine Agostino Pirella, Domenico Casagrande, Sergio Piro, Vieri Marzi, Antonio Slavich, Gian Franco Minguzzi che operarono in Italia da Trieste a Palermo. A Roma operarono Fausto Antonucci, Tommaso Losavio, Renato Piccione, Luigi Attenasio ed altri.
 
Tommaso Losavio nel suo recente libro “Fare la 180”, Edizioni ETS 2021, racconta fatti straordinari che hanno reso possibile la costruzione di una psichiatria di comunità a Roma e la chiusura, nel 1999, del più grande manicomio d’Europa, l’Ospedale Psichiatrico Santa Maria della Pietà. Un primario che, accompagnato dai suoi giovani collaboratori, occupa in pieno centro di Roma, in via Baccina, un appartamento abbandonato, di proprietà del Comune di Roma, abbattendone a colpi di piccone la porta murata, per utilizzarlo come abitazione e liberare cinque donne da anni ricoverate nel manicomio S.Maria della Pietà è uno dei fatti straordinari, forse anche un po’ divertenti, di questa storia. Una serie di simili iniziative consentirà la costruzione “spontanea”, o invenzione, già nei primi anni ’80, dei DSM, le cui caratteristiche strutturali e funzionali saranno definite con decreto del Presidente della Repubblica soltanto dal Primo Progetto Obiettivo salute mentale dell’aprile 1994.
 
Non c’è dubbio che una tale complessa attività, che richiede una dedizione assoluta e non comuni capacità organizzative e di rapporto empatico con le persone, poté avvenire anche per la presenza nel Paese di un favorevole contesto culturale e politico.
 
Purtroppo nei successivi venti anni la trasformazione non solo è rimasta drammaticamente incompiuta, ma dopo la aziendalizzazione e la successiva prevalente privatizzazione della sanità è stato messo in atto un selvaggio smantellamento dei servizi di comunità per la salute mentale che sono stati in gran parte sostituiti da una vasta, malintesa “residenzialità”, per lo più privata, di chiaro stampo neomanicomiale.
 
E’ stata cioè realizzata nella pratica quotidiana, e spesso con il coinvolgimento più o meno consapevole di operatori burocratizzati e di famigliari rassegnati, una strisciante controriforma con nuove e subdole forme di istituzionalizzazione che Franco Basaglia aveva sempre lucidamente messo nel conto esortando i suoi collaboratori alla vigilanza e alla difesa.
 
Non possiamo non interrogarci, oggi, sulle cause e sulle responsabilità di questa involuzione e della conseguente, intollerabile sopravvivenza di pratiche lesive della dignità della persona come, per esempio, la contenzione meccanica la cui nocività è da tempo scientificamente riconosciuta.
 
Dobbiamo peraltro insistere sulla necessità di una profonda riflessione sulla dimensione politica del problema che pone la crisi della tutela della salute mentale nell’ambito di una più vasta crisi e di processi involutivi che coinvolgono la intera collettività e pongono all’ordine del giorno la ulteriore diffusione di una cultura adeguata ai tempi e l’urgenza di un cambiamento di paradigma dell’organizzazione della società stessa.
 
In questa prospettiva anche i comportamenti individuali non dovrebbero consolidare procedure o pratiche ormai obsolete, ma dovrebbero essere volti a preparare e, quando possibile, anticipare il cambiamento.
 
Non c’è dubbio infatti che nessuna riforma o rivoluzione cade dall’alto, ma ogni più piccolo cambiamento viene costruito su scelte coraggiose delle persone, sul superamento di assurdi condizionamenti e, se necessario, trasgredendo norme eticamente inaccettabili.
 
Girolamo Digilio
Già Primario e Docente di Clinica Pediatrica, Università La Sapienza, Roma
 

                                                                         


19 luglio 2021
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