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Forum 180.  Paola Carozza: “L’organizzazione va ripensata sulla base delle evidenze scientifiche e non solo dei principi o delle ideologie”

di Paola Carozza

È ormai chiaro che l’attuale organizzazione dei servizi di salute mentale è inadeguata di fronte ai bisogni posti da nuove popolazioni di pazienti. Dobbiamo chiarirci una volta per tutte sul modello di malattia, sul modello di salute, sui modelli di  intervento, nonché sulle conoscenze, abilità e attitudini  da sviluppare da parte del personale, in modo che cittadini di una regione o  di una provincia ricevano lo stesso trattamento anche in regioni e province diverse. Per fare questo non sono sufficienti principi e ideologie, né il solo aumento di risorse umane, ma evidenze scientifiche, prassi di comprovata efficacia, apporti di chi riceve i servizi e coraggio di eliminare i rami secchi

18 OTT -

Ho letto con grande interesse il libro di Ivan Cavicchi “Oltre la 180” e lo ringrazio per il formidabile stimolo alla riflessione che ne ho tratto. Con l’approvazione della Legge 180/78, con la quale sono stati istituiti servizi di salute mentale e sono stati definitivamente chiusi gli ospedali psichiatrici, si è diffuso un nuovo modo di trattare e interpretare il disturbo psichiatrico, basato sui seguenti principi: le persone con malattie mentale non devono essere segregate ed isolate, ma reinserite a pieno titolo nella società, riprendendosi i loro diritti di cittadinanza; la malattia mentale è una malattia come le altre e, pertanto, passibile di cura e anche di guarigione; l'assistenza, la cura e la riabilitazione devono essere offerte nel luogo di vita delle persone affette.

A tali principi, del tutto condivisibili e costantemente difesi, non è corrisposto l’impegno a riempirli di indicazioni tecniche e di revisioni organizzative, entrambe ormai non più eludibili, a causa di una serie di rilevanti fenomeni, che hanno contribuito a rendere più complesso il quadro e più difficile il compito di cura: l’aumento dell’incidenza e della prevalenza del disturbo mentale nella fase adolescenziale e in giovane età, la diffusione impressionante dell’uso di sostanze, il fenomeno migratorio e la pandemia del Covid 19. Si stima che in almeno nel 50% delle persone che accedono ai servizi di salute mentale degli adulti l’esordio della malattia si sia manifestato in età adolescenziale e che il consumo problematico di sostanze psicoattive è passato da 2,5% nel 2010 a 9% nel 2021. Altra fonte di preoccupazione è il tasso di incidenza e di prevalenza della malattia mentale nelle popolazioni migranti, che sono toccate da tale problema in una percentuale che va da un terzo al 50%.

La pandemia Covid 19 non ha fatto altro che agire da detonatore su ragazzi e giovani, già costituzionalmente vulnerabili, e resi ancora più vulnerabili dall’uso di sostanze, assunte il più delle volte a scopo auto-terapico.

Per quanto riguarda le revisioni organizzative, esse dovrebbero basarsi sui dati scientifici provenienti dalla letteratura e non su affermazioni ideologiche o meramente di principio, come è successo finora nel settore.

Oggi le evidenze ci dicono che:

  1. La malattia mentale se non curata precocemente in modo multidimensionale, interdisciplinare e multiprofessionale evolve verso la disabilità , ossia verso la perdita di ruolo sociale e verso un deterioramento delle facoltà cognitive, essenziali per vivere, relazionare, scegliere e intrepretare correttamente la realtà personale e sociale. La disabilità è la più grave conseguenza della malattia mentale, spesso più grave dei sintomi, in quanto produce alterazioni dell’identità e processi di auto-stigmatizzazione.
  2. Le ricadute possono essere gestite anche senza ricovero ospedaliero, purché l’intervento sia tempestivo, nel luogo di vita della persona, intensivo (accessi quotidiani) e supportivo anche nei confronti del contesto familiare. E’ stato dimostrato che, nel caso di persone particolarmente vulnerabili, al fine di prevenire le ricadute l’équipe curante dovrebbe avere almeno 3 contatti settimanali con il paziente e la sua famiglia.
  3. La dipendenza da sostanze non è un vizio ma una vera e propria malattia, che mina l’autodeterminazione e la volizione, rendendo la persona priva della possibilità di scegliere per il suo bene e tiranneggiata dal desiderio incontrollabile utilizzare droghe per sedare dolori, angosce e sintomi. Più della metà delle persone che accedono ai nostri servizi ha una comorbilità psichiatrica con uso di sostanze e non può essere curata da servizi separati.
  4. Le neuroscienze scoiali hanno scoperto che il cervello è neuroplastico e che pertanto stimolare i pazienti all’esercizio delle facoltà mentali (ragionamento, riflessione, logica e apprendimento ) e cognitive (memoria, attenzione, funzioni esecutive, problem solving) produce una riorganizzazione delle reti neurali, tali da compensare i deficit del neuro sviluppo cerebrali (presenti, in modo più o meno massivo, in tutte le malattie mentali) e da contrastare l’evoluzione disabilitante della malattia mentale.
  5. Gli ambienti, le cui regole sono lontane da quelle vigenti nella società, dove le persone non sono esposte alla vita “reale” (vedi residenze psichiatriche), ma vengono “accudite” 24h su 24 sono inevitabilmente disabilitanti, ossia inducono la perdita di abilità, in quanto, secondo le scienze dell’apprendimento, le abilità, se non vengono esercitate, si estinguono. Al contrario, ambienti che allenano alle competenze sociali e non fungono da barriera nei confronti della vita, ma, al contrario, favoriscono il contatto con le piccole e grandi sfide della quotidianità sono abilitanti, evolutivi e destigmatizzanti.

Le evidenze suddette richiedono un cambiamento di rotta nelle prassi e nelle organizzazioni dei servizi di salute mentale, che cercherò di descrivere nei punti seguenti, consapevole, ovviamente , che la proposta è solo abbozzata e non certo esaustiva :

  1. I servizi sono spesso troppo farraginosi e burocratici, rendendo l’accesso difficile, quando tra la richiesta di appuntamento e la prima visita sono interposti una serie di altri passaggi, e frantumato, quando diversi professionisti effettuano interventi sullo stesso paziente senza integrarsi tra loro. Ciò incide anche sulla tempestività di intervento, sia nei confronti delle malattia all’esordio sia nei confronti delle ricadute, spesso ritardato rispetto ai tempi nei quali dovrebbe essere offerto. E’ necessario, pertanto, un sistema di servizi con minori barriere, dove il professionista che accoglie un cittadino, sia al primo contatto che ai successivi, coinvolga velocemente le altre professionalità, armonizzi le proprie competenze con quelle dei colleghi e restituisca una valutazione diagnostica e un chiaro percorso di cura al paziente e alla famiglia in tempi ragionevoli (la letteratura ci dice entro 7/10 gg. al massimo), facendo ricorso alle migliori evidenze disponibili.
  2. Lo stile di lavoro deve essere orientato ad una maggiore pro-attività, adottando quello che gli anglosassoni chiamano “assertive outreach” ( i professionisti escono dagli ambulatori e raggiungono i pazienti nel luogo di vita), superando l’atteggiamento di attesa (aspettare che sia il paziente a recarsi in servizio), che così spesso è stato causa di interventi ritardati e di abbandoni.
  3. Bisogna porsi il problema di come riorganizzare i servizi al fine di offrire trattamenti psicosociali basati sull'evidenza scientifica e orientati alla ripresa della salute mentale. E’ inaccettabile che i trattamenti psicosociali vengano offerti solo ad un quarto delle persone che ne avrebbero bisogno e che ancora oggi siano considerati ancillari rispetto alla terapia farmacoterapica .
  4. E’ prioritario ridefinire il ruolo dei SerD, chiedendosi anche se , alla luce dell’aumento di popolazione con comorbidità psichiatrica e uso di sostanze, ha ancora senso mantenerli. Il trattamento delle dipendenze oggi si svolge, di fatto, all’interno di un duopolio: SERT - Comunità che ha cercato di “bilanciare”, senza mai riuscirci completamente, il concetto del “prendersi cura” dal punto di vista educativo con quello del “curare” dal punto di vista clinico. Il mandato sociale al Sistema di intervento sulle tossicodipendenze è sempre stato ambiguo: molto più indirizzato al contenere i problemi sociali e, forse, le persone che li provocavano, piuttosto che a curare e, possibilmente, a guarire. Contemporaneamente, sistemi attigui - come quello psichiatrico - se da una parte individuano l’inadeguatezza dei trattamenti forniti a pazienti “doppia diagnosi”, dall’altra faticano a proporre e a costruire collaborazioni per la costruzione di modelli di intervento adeguati. Nella nostra cultura il “paziente doppia diagnosi” tende a diventare ... di competenza altrui ... specialmente quando la “doppia diagnosi” è dichiarata!
  5. Bisogna interrogarsi se il DSM, così come è organizzato, sia ancora funzionale. Chi scrive è convinto di no. Il crescente numero di pazienti con bisogno di trattamenti integrati multidimensionali e la conseguente necessità di superare la presa in carico delle singole UO devono orientare verso un modello di presa in carico in cui siano coinvolti operatori adeguatamente competenti, a prescindere dal servizio di appartenenza (Centro di Salute Mentale, Dipendenze Patologiche, SPDC, Neuropsichiatria Infantile, Servizi Sociali, Consultorio, Medici di Medicina Generale), con incontri sistematici tra tutte le figure professionali interessate al piano di trattamento per l’utilizzo interdisciplinare di tutte le risorse presenti. In altri termini si tratta di superare il modello organizzativo a “silos”, dove i diversi servizi lavorano in modo parallelo o sequenziale, ma sostanzialmente separato e senza interconnettersi, per transitare la modello di rete o user-centered, dove il cittadino riceve una risposta coerente e omogenea in qualunque nodo dell’organizzazione si imbatta.

E infine, ma non meno importanti, sono le competenze professionali del personale. Nel settore della salute mentale, storicamente, si è sempre data poca rilevanza alla formazione di chi, per anni, ha in carico persone con gravi problemi psichiatrici e quasi mai si è tenuto il passo con il recente sviluppo delle conoscenze scientifiche.

Neanche le discipline correlate a quella psichiatrica, deputate a fornire ai servizi importanti figure professionali non mediche, si sono sostanzialmente preoccupate di aumentarne le competenze operative, rivelando l’assenza di programmi di formazione sui temi di fondo della psichiatria di comunità nella maggioranza dei corsi universitari per psicologi, assistenti sociali, infermieri, educatori professionali.

Alcuni motivi del disinteresse dimostrato si ritrovano: a) nella maggiore evidenza scientifica della psicofarmacoterapia e nella scarsità di studi attestanti l’efficacia delle tecniche psicosociali; b) nella convinzione che la principale causa delle malattie mentali sia di origine biologica, per cui l’esito ottimale atteso consiste, tutt’al più, nella stabilizzazione dei sintomi psicotici; 3) nella scorretta interpretazione del concetto di cronicità, considerata da sempre una conferma di inguaribilità piuttosto che la caratteristica di una malattia persistente (alternanza di periodi di remissione a periodi di riacutizzazione per l’intero corso della vita).

E così la gestione di una malattia cronica, quale quella mentale, è stata affidata ad ambiti aspecifici e a personale impreparato e scarsamente supportato, che nella migliore delle ipotesi si è limitato ad una buona assistenza, intesa come soddisfacimento dei bisogni primari (sussidi, vitto, alloggio, supporti aspecifici), o all’offerta di programmi ricreativi e di intrattenimento. Si è, quindi, rinforzato nella psichiatria di comunità del nostro Paese uno sconcertante paradosso: proprio dalla grave disabilità psichiatrica, bisognevole di continui tentativi terapeutici, investimenti e risorse, si è maggiormente disinvestito sotto il profilo della rigorosità e della qualità degli interventi, relegata in un limbo, dove è richiesto il semplice possesso di una generica disponibilità, ma non di specifiche attitudini, abilità, conoscenze, basali per affrontare alcuni temi dell’assistenza psichiatrica pubblica.

Oggi i nuovi bisogni richiedono nuove conoscenze, nuove abilità e nuove attitudini, per cui massima deve essere l’attenzione agli operatori che quotidianamente affrontano la sfida comportata dalla malattia mentale. È oggi quanto mai importante occuparsi della loro motivazione e del loro benessere. Non bisogna, infatti, sottovalutare quanto gli esiti di salute mentale nelle persone affette da disturbo psichiatrico dipendano in gran parte dalla motivazione e dai livelli di competenza professionale del personale, a prescindere dalla loro categoria professionale, e che i pazienti senza speranza sono frutto di operatori senza speranza perché lasciati soli e privi di strumenti .

Paola Carozza

Direttore DAISMDP (Dipartimento Assistenziale Integrato Salute Mentale e Dipendenze Patologiche), Ferrara
Deputy Vice President Europa WAPR (World Association Psychosocial Rrehabilitation)

Leggi gli altri interventi: Fassari, Cavicchi, Angelozzi, Filippi, Ducci, Fioritti, Pizza, d'Elia, Cozza, Peloso, Favaretto, Starace



18 ottobre 2022
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