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Il ruolo del direttore generale delle aziende sanitarie: equilibrio tra politica e gestione

di Isabella Mastrobuono

Da anni si parla di distinguere i poteri di indirizzo e programmazione da quelli gestionali che consentano, ad esempio attraverso Board o consigli di amministrazione,  di condividere scelte programmatorie e di meglio organizzare la risposta gestionale. Ma è tutta la governance aziendale che dovrebbe essere esaminata e “aggiornata”, dalle funzioni del Collegio di direzione a quelle di altri organismi che con fatica riescono ad incidere sull’organizzazione

19 MAG -

Il rapporto tra indirizzo politico regionale e gestione delle aziende sanitarie a cura dei direttori generali è certamente tra i più delicati e controversi della dirigenza pubblica ed è un tema al quale la legge n. 124 del 2015 ed i successivi provvedimenti (decreto legislativo 4 agosto 2016, n. 171 e s.m), hanno inteso porre rimedio con la previsione dell’elenco nazionale dei soggetti idonei alla nomina di direttore generale, di fatto contingentando il potere discrezionale delle Regioni.

Lo scopo della legge è quello di valorizzare il merito, prevedendo apposite procedure di livello nazionale basate su specifici requisiti di ingresso, aprendo il ruolo anche al management privato, per favorire l’inserimento di esperienze provenienti dal mondo privato (non solo sanitario) e migliorare l’efficienza che deve contraddistinguere la managerialità del direttore generale nella difficile governance di una struttura sanitaria.

La Corte costituzionale è più volte intervenuta sulla materia, cercando di chiarire, di definire e di separare le rispettive sfere di competenze e di influenza, descrivendo il direttore generale come una figura tecnico-professionale che ha il compito di perseguire, attraverso un contratto di lavoro autonomo, gli obiettivi gestionali e operativi definiti dai provvedimenti regionali e nazionali e gli indirizzi della Giunta regionale.

Così è scritto nel parere del Consiglio di Stato il 18 aprile 2016 sulla legge 124/2015: “ il rapporto di fiduciarietà politica insito nel meccanismo della nomina del direttore generale non può sconfinare, tuttavia, in uno spoils system senza limiti e garanzie, sicché la sua nomina e, ancor più, la sua rimozione deve passare attraverso un giusto procedimento di verifica dei risultati della gestione, tenendo conto della condizione economico- finanziaria di partenza della singola azienda, del budget assegnato e degli obiettivi di salute e di gestione fissati dalla Regione”.

La figura del direttore generale, in altri termini, deve essere tutelata per evitare che la sua posizione di dipendenza funzionale, rispetto alla volontà politica della Giunta regionale, si trasformi in dipendenza politica (Corte cost., 19.3.2007, n. 104).

I direttori generali, hanno scritto i giudici, “devono essere considerati «funzionari neutrali», poiché non sono nominati in base a criteri «puramente fiduciari», essendo l’affidamento dell’incarico subordinato al possesso di specifici requisiti di competenza e di professionalità, e non richiedendosi agli stessi «la fedeltà personale alla persona fisica che riveste la carica politica», ma la «corretta e leale esecuzione delle direttive che provengono dall’organo politico, quale che sia il titolare pro tempore» (Corte cost., 5.2.2010, n. 34).

Entrano così in campo i principi di trasparenza e di imparzialità che debbono sottendere i procedimenti di nomina e revoca di un direttore generale e che rappresentano la reale innovazione della legge, la quale, riformando questa materia, si pone l’obiettivo primario di riavvicinare il cittadino alla pubblica amministrazione, «destinata sempre più ad assumere i contorni di una ‘casa di vetro’, nell’ambito di una visione più ampia dei diritti fondamentali sanciti dall’articolo 2 della Costituzione, che non può prescindere dalla partecipazione ai pubblici poteri»(Consiglio di Stato, parere n. 515 del 24.2.2016), anche «al fine di realizzare l’aspirazione a una democrazia intesa come “regime del potere visibile” (secondo la definizione di Norberto Bobbio) ».

Il successo della riforma è affidato anzitutto all’opera e alla leale collaborazione delle Regioni e Province autonome, alle quali è demandata, anche sulla base della ripartizione delle competenze voluto dalla Costituzione, l’organizzazione del Servizio sanitario secondo i fondamentali principi di imparzialità, efficienza e trasparenza. Alle Regioni è anche demandata l’attuazione di un altro caposaldo della riforma, e cioè la formazione dei direttori generali delle aziende sanitarie.

Il recente disegno di legge a firma del senatore Andrea Crisanti ed Altri intende limitare ancora di più l’ingerenza delle Regioni nella nomina dei direttori generali e prevede l’istituzione di una commissione valutatrice nominata dall’Autorità Nazionale Anticorruzione (come se i Direttori generali fossero potenziali “disonesti”) con rappresentanti di medici, operatori sanitari, associazioni di pazienti e del Sindaco del luogo in cui l’azienda ha sede (o di un suo delegato), oltre a due rappresentanti della regione e dell’Agenas.

La Commissione non si limita a formare una rosa di candidati bensì seleziona il candidato da proporre per la nomina al presidente della regione, che può rifiutarsi solo per motivate e comprovate ragioni derivanti dall’esistenza di un conflitto di interessi. La stessa commissione dovrebbe poi valutare il direttore generale nelle fasi di conferma dell’incarico (dopo i primi ventiquattro mesi) e intervenire nell’eventuale revoca del medesimo, nonché di nomina di eventuale commissario.

Con altri rappresentanti in un’altra Regione, la commissione potrebbe invece ritenere idoneo quello stesso Direttore generale (come oggi avviene se si confrontano le liste degli idonei a livello delle singole regioni). Cosa cambia?

Sembra, a personale avviso, una specie di Tribunale dinanzi al quale dimostrare a persone (con quali competenze “manageriali” ed “esperienza” ad eccezione dei rappresentanti della regione e di Agenas) di essere in grado di dirigere l’Azienda, pur essendo già dichiarato idoneo a livello nazionale.

Personalmente non mi presenterei mai.

La permanenza media a livello nazionale nell’incarico di direttore generale, è di circa 3 anni e mezzo, “il che costituisce, secondo i più autorevoli studiosi e attenti osservatori dell’organizzazione sanitaria, una delle maggiori criticità del processo di aziendalizzazione, impedendo programmazioni della gestione aziendale di medio-lungo periodo che possano concretamente incidere sull’organizzazione aziendale”. (Consiglio di Stato 2016). L’età media dei direttori attualmente in carica è alta (come per quasi tutte le figure professionali del servizio sanitario nazionale), la partecipazione dei soggetti provenienti dal privato è scarsa, come risulta dalle selezioni ad oggi avvenute e a dimostrazione dello scarso appeal del settore, la formazione è demandata ad un corso di 180 ore organizzato dalle Regioni al quale spesso segue un aggiornamento individuale, la mobilità dei direttori generali, proficua per la circolazione delle esperienze e delle migliori pratiche, è ostacolata dai costi per i trasferimenti e dalla manifesta tendenza delle Regioni e Province autonome a costruire una propria classe dirigente.

I compensi sono fermi al DPCM del 2001 e spesso sono inferiori a quelli di dirigenti medici della stessa Azienda, soprattutto se operano in libera professione.

Il lavoro del Direttore generale è molto complesso e costellato di responsabilità che gravano esclusivamente sulla sua persona (basti pensare alla sicurezza dei luoghi di lavoro). Durante la pandemia (che anche la sottoscritta ha vissuto come Commissario straordinario in Calabria) molti Direttori generali si sono trovati dinanzi a situazioni di emergenza assoluta, affrontata con le risorse umane e finanziarie a disposizione, risorse che sono insufficienti a mantenere il diritto costituzionale alla tutela della salute.

Ogni giorno i Direttori generali si confrontano con problematiche complesse senza avere a disposizione gli strumenti per affrontarle e sono spesso destinatari di obiettivi che raramente sono assegnati per la specifica azienda nella quale operano, e che sono sottoscritti, unitamente al contratto, senza conoscere lo stato dell’azienda nella quale si troveranno a lavorare.

In concreto sono l’unico soggetto sul quale ricadono responsabilità che si dovrebbero ricercare spesso a livelli più alti, regionali e forse anche nazionali. Per questo provvedimenti come la decadenza automatica in caso di disavanzo ovvero per il mancato rispetto dei tempi di attesa delle prestazioni, non sono di fatto applicati (si dovrebbero revocare quasi tutti i direttori generali delle aziende sanitarie del Paese altrimenti).

Il punto, ad avviso della scrivente, è che forse sono maturi i tempi per riflettere sulla figura del Direttore generale che è organo monocratico dell’azienda e nello stesso tempo manager dell’amministrazione, essendo le due qualità differenti per modalità di azione e finalità. Come ben chiarito da Di Martino ed Andracchio (IUS et Salus/2020) “l’organo è una categoria priva di auto-spontaneità, in quanto le finalità da conseguire e gli strumenti da impiegare per il loro perseguimento sono predeterminate, in omaggio ai principi di legalità, di tipicità e di nominatività, dal legislatore. Per converso, il manager risponde a logiche imprenditoriali ….., le quali esigono che le finalità e gli strumenti da impiegare, lungi dall’essere predeterminati, siano rimessi ad elastiche valutazioni di convenienza economico-finanziaria compiute, caso per caso, dal dirigente”.

In qualità di organo il direttore generale deve rispondere agli indirizzi dettati dal vertice politico e come manager deve operare in modo efficace ed efficiente, ed è indubbio che un modello organizzativo fondato su un organo monocratico che assomma la totalità dei poteri gestionali e di indirizzo è poco adatto e costringe il legislatore a introdurre sempre più complessi ed articolati sistemi per equilibrare le due funzioni.

Da anni si parla di distinguere i poteri di indirizzo e programmazione da quelli gestionali (vedi le proposte Fiaso del 2018 del compianto Francesco Ripa di Meana) che consentano, ad esempio attraverso Board o consigli di amministrazione, di condividere scelte programmatorie e di meglio organizzare la risposta gestionale. Ma è tutta la governance aziendale che dovrebbe essere esaminata e “aggiornata”, dalle funzioni del Collegio di direzione a quelle di altri organismi che con fatica riescono ad incidere sull’organizzazione.

Non sono questioni di poco conto in una sanità ogni giorno più complessa che abbisognano di attenzione e coraggiose scelte.

Isabella Mastrobuono

Direttore UOC assistenza territoriale e cronicità
Referente unico di parte M6 del PNRR PA
Azienda sanitaria dell’Alto Adige



19 maggio 2023
© Riproduzione riservata


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