Rapporto Gimbe fuorviante, penalizza il privato accreditato

Rapporto Gimbe fuorviante, penalizza il privato accreditato

Rapporto Gimbe fuorviante, penalizza il privato accreditato

Gentile direttore, un rapporto di 264 pagine piena di dati e statistiche è quanto ci consegna anche quest’anno la Fondazione Gimbe. È salutato come una sorta di testo verità sullo stato del servizio sanitario nel nostro Paese, ma ad una attenta analisi emergono non poche perplessità per un palese pregiudizio antiprivato.

Gentile direttore,
Un rapporto di 264 pagine piena di dati e statistiche è quanto ci consegna anche quest’anno la Fondazione Gimbe. È salutato come una sorta di testo verità sullo stato del servizio sanitario nel nostro Paese, ma ad una attenta analisi emergono non poche perplessità per un palese pregiudizio antiprivato.

Quest’anno più di prima il rapporto appare privo di un metodo rigoroso e chiaro nella classificazione dei dati, errato finanche nelle operazioni matematiche, zeppo di luoghi comuni di stampo populista e demagogico ma, soprattutto, carente di analisi sistematica e fuorviante sulle cause dei problemi e sui rimedi possibili.

Ma andiamo con ordine. Dalla sintesi pubblicata ieri sul Sole 24 Ore emerge che un euro su quattro di spesa sanitaria sarebbe “sborsato dalle famiglie”. E questo 25% sarebbe così composto: “i 43 mld di spesa sanitaria privata vanno per 12,1 mld alle farmacie, per 10,6 mld a professionisti – di cui 5,8 mld odontoiatri e 2,6 mld ai medici – per 7,6 mld al privato accreditato con il SSN, per 7,2 mld al privato “puro” e per 2,2 mld al Servizio sanitario nazionale come retribuzione della libera professione”.

L’operazione è errata matematicamente, segno che i numeri sono dati a caso (la somma fa 48,1, non 43), ma il punto intellettualmente obliquo è l’affermazione secondo la quale: “questi numeri – osserva Cartabellotta – dicono che la privatizzazione della spesa sta determinando una progressiva uscita dei cittadini dal perimetro delle tutele pubbliche, con l’acquisto sul mercato delle prestazioni necessarie”.

Suggestione che non può non cogliere nel segno e suscitare mormorii di indignazione e riprovazione verso il concetto di privato.

Tuttavia, a voler essere seri – o forse semplicemente conoscitori del sistema che si pretende di analizzare – si dovrebbe osservare come la spesa per il privato accreditato (indicata in 7,6 mld, ove fosse veritiero il dato) non fa parte di quel 25% che uscirebbe dalle tasche dei cittadini per il semplicissimo motivo che è servizio pubblico, che i cittadini non pagano niente quando chiedono cure all’ospedale privato accreditato e quindi, con buona pace di Gimbe, stanno dentro al “perimetro delle tutele pubbliche”, non sono affatto “acquistate sul mercato delle prestazioni sanitarie”.

Questo dovrebbero saperlo tutti gli osservatori, cioè che il sistema è questo e che il privato accreditato è servizio pubblico puro. Inserire una suggestione del genere in un rapporto presentato con cura di scientifica verità nell’aula del Senato è operazione non corretta e oggettivamente contraria all’obiettivo di contribuire a conoscere il grado di efficienza del sistema sanitario, ed a migliorarne le performance.

E questa convinzione è rafforzata da altri passaggi. A esempio questo: “l’altra faccia della medaglia nell’analisi della spesa sanitaria a carico dei cittadini è la “privatizzazione della produzione”; principalmente interessa da un lato le strutture private convenzionate che forniscono servizi e prestazioni per conto del SSN e vengono rimborsate con risorse pubbliche”.

Affermazione formalmente corretta – la produzione delle strutture private convenzionate è effettivamente rimborsata con risorse pubbliche – ma inserire questa ovvietà nel contesto di una denuncia di privatizzazione di un servizio pubblico senza spiegare che tutto ciò significa che il cittadino non paga niente, che il rimborso è costituito da tariffe fissate dallo Stato ed è effettuata dopo verifiche e controlli su appropriatezza e qualità, e infine che se gli stessi “servizi e prestazioni” fossero erogati dalle strutture pubbliche costerebbero all’erario più del doppio, è operazione intellettualmente fuorviante.

Ancora Gimbe: “il netto divario tra spesa delle famiglie verso il privato “puro” e verso il privato convenzionato si è praticamente azzerato passando da 2,2 mld nel 2016 a soli 390 mln nel 2023”. “Tra i fenomeni di privatizzazione – commenta Cartabellotta – la dinamica più preoccupante è dunque la velocità di crescita del privato “puro”. Infatti, mentre il dibattito pubblico continua ad avvitarsi sul ruolo del privato convenzionato, la cui incidenza sulla spesa sanitaria si è addirittura ridotta, i dati documentano la crescita esponenziale della spesa out of pocket verso il privato – privato”. Anche qui, leggendo la premessa di questa argomentazione, si stenta a credere alla sincera conoscenza del funzionamento del sistema.

Non v’è alcuna spesa possibile “delle famiglie per il privato accreditato”, per il semplicissimo motivo che “accreditato” vuol dire pubblico. Ed il servizio pubblico NON è a carico delle famiglie.

Come si può consentire uno strafalcione del genere ad un ente così noto e relatore in un’aula del Senato della Repubblica?

Ma non è solo sulla sciatteria delle analisi che lo studio di Gimbe desta sorpresa. Anche sulla povertà delle idee sulle risposte possibili non si scorge alcuna volontà (o capacità) di approfondimento: “i dati documentano la crescita esponenziale della spesa out-of-pocket verso il privato-privato. Non trovando risposte tempestive nel pubblico né nel privato accreditato, chi può pagare cerca altrove ed esce definitivamente dal perimetro delle tutele pubbliche. Questo circuito, insieme all’intramoenia, rappresenta l’unica scappatoia per il cittadino intrappolato nelle liste di attesa”.

Non è vero. Il rimedio ci sarebbe: ed è l’applicazione della legge, cioè del d.lgs. 502/92 che prescrive che nei contratti con gli erogatori privati devono essere inseriti i criteri per la remunerazione con riduzioni progressive e proporzionate delle prestazioni rese oltre i tetti di spesa contrattualizzati. Previsione lungimirante per assicurare:

  1. la continuità del servizio (che non si blocca al raggiungimento del tetto);
  2. la libera scelta del cittadino (che può chiedere cura e assistenza dove e a chi sceglie lui);
  3. la libera impresa (che non è costretta a sospendere il servizio continuando a sostenere i costi fissi);
  4. l’abbattimento della lista d’attesa (il cittadino che trova risposta anche oltre il tetto di spesa non allunga la lista d’attesa);
  5. il contenimento dell’emigrazione sanitaria (il cittadino che trova risposta anche oltre il tetto di spesa non va a curarsi fuori regione);
  6. la diminuzione della spesa out of pocket (il cittadino che trova risposta anche oltre il tetto di spesa non la chiede alla struttura ove si paga);
  7. la diminuzione della spesa pubblica ed il rispetto della programmazione economica (le prestazioni che, se rese altrove, sarebbero pagate a prezzo pieno, in questo modo sono remunerate con tariffe ridotte progressivamente all’interno di un fondo opportunamente accantonato).

Ora, pur avendo di fronte tutte queste opzioni ed altre, idonee a fornire ai lettori ed ai decisori politici indicazioni utili per cambiare le cose, tuttavia Gimbe non offre ai rapiti ascoltatori del suo verbo nient’altro che la banale, semplicistica, rassegnata richiesta di aumento indiscriminato del finanziamento statale.

Chiudiamo quindi con la proposta di Cartabellotta: “In questo scenario – commenta Cartabellotta – caratterizzato dal progressivo arretramento della sanità pubblica e al contempo da una sregolata espansione di innumerevoli soggetti privati che perseguono anche obiettivi di profitto, parlare di “integrazione pubblico-privato” diventa anacronistico e oltraggioso nei confronti dell’art. 32 della Costituzione e dei principi fondanti del Servizio sanitario nazionale. Dalla Fondazione Gimbe ribadiscono che è ancora possibile invertire la rotta. Come? Con un consistente e stabile rilancio del finanziamento pubblico, un “paniere” di Livelli essenziali di assistenza compatibile con l’entità delle risorse assegnate, un “secondo pilastro” che sia realmente integrativo rispetto al SSN ed eviti di dirottare fondi pubblici verso profitti privati e alimentare derive consumistiche, un rapporto pubblico-privato governato da regole pubbliche chiare sotto il segno di una reale integrazione e non della sterile competizione”.

Ora, che l’aumento dei fondi destinati alla tutela della salute degli italiani sia necessario e sia una priorità, lo diciamo con convinzione, ma con più autorevolezza lo ha ribadito anche la Corte Costituzionale con la nota sentenza 195/2024.

Tuttavia un operatore “influencer” dovrebbe – deve – anche sfuggire a scorciatoie demagogiche ed indicare percorsi concreti per l’utilizzo dei fondi.

Invece, da questo zibaldone di populismi ricaviamo solo che Gimbe ritiene che i soggetti privati che perseguono “anche obiettivi di profitto” dovrebbero essere espulsi dalle dinamiche di integrazione pubblico–privato, perché “oltraggiosi” nei confronti dell’art. 32 della Costituzione. Qui è bene ribadire che l’art. 32 tutela la salute come diritto fondamentale dell’individuo. Non si capisce perché Gimbe colleghi questa tutela al divieto di profitto di aziende che contribuiscono alla realizzazione della tutela medesima. Come dire che chi scrive libri e li vende traendone profitto, o chi produce e vende impianti a basse emissioni inquinanti, o chi restaura opere d’arte ricavandone un compenso, oltraggia l’art. 9 della Costituzione.

Roba che sembra ricavata dalla più retrograda provincia culturale della Russia staliniana, ma che suonerebbe meglio in una Repubblica delle banane, dove il profitto (non l’imbroglio, la truffa, la speculazione, no; solo il profitto in quanto tale) viene ritenuto un demone da estirpare.

Con la conclusione che l’unico rimedio, invece di una politica seria, rigorosa, fatta di programmazione scevra da pregiudizio, rispettosa di valori e diritti, sarebbe quello di un bel po’ di soldi in più, così, a casaccio, senza la minima indicazione di quanto, come e dove indirizzarli e come impiegarli, purché tutto sia finalizzato a non “dirottare fondi pubblici” verso “profitti privati” (vade retro Satana) e si cancelli per sempre, perché “sterile”, il principio fondante di ogni società liberale e socialista: la competizione, ovvero quella dinamica applicabile a tutti i settori dell’attività umana che suscita sempre, se ben regolata dalla politica e onestamente praticata, l’incremento della qualità e la diminuzione dei costi. Una regola naturale ferrea che non abbiamo trovato in nessuna delle 264 pagine, perché forse stava in qualche slide che deve evidentemente essere sfuggita nella presentazione del rapporto, per un guasto del sistema.

Avv. Enzo Paolini
Vicepresidente ACOP

Enzo Paolini

01 Dicembre 2025

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