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Medici e lavoro. Non esistono guerre intergenerazionali. Serve una riforma della professione

di Ivan Cavicchi

La distinzione giovani/anziani ha poco senso, mentre ha più senso quella tra medici diversamente svantaggiati in rapporto al mercato del lavoro. Se fossi un giovane medico e potessi ottenere una grazia da S. Gennaro non chiederei un posto di lavoro ma di liberarci dai nostri "crampi mentali". Allora per la professione intera si aprirebbero nuove possibilità occupazionali. Altrimenti si continuerà ad assistere al suo continuo degrado.

10 GIU - La discussione fatta a Salerno (ordine dei medici 6 giugno 2015) sui problemi della formazione e del mercato del lavoro dei medici mi ha dato da pensare, nel senso che mi ha procurato quei “crampi mentali” di cui ci ha parlato Wittgenstein e che di solito ci impediscono di "indicare alla mosca la via d'uscita dalla trappola" (cf. Ricerche filosofiche, n. 309). Ma di quale trappola stiamo parlando? Quella che in apertura al convegno è stata efficacemente descritta dai “giovani medici” con un video che di manifestazione in manifestazione culminava, simbolicamente, con una invocazione di massa davanti al duomo di Napoli a S.Gennaro per chiedergli la grazia di un lavoro.

La forma di questa trappola è quella dello “scarto”, cioè una sorta di condizione e di destino al quale il medico non può sfuggire: tra il numero di coloro che vorrebbero studiare medicina e il numero di posti concessi, tra il numero dei contratti di formazione disponibili e gli aventi diritto, tra il numero dei laureati e gli accessi al mondo del lavoro, tra il bisogno delle specializzazioni e il numero di specializzandi ecc . Tutto è scarto anche se in realtà esso è un doppio scarto:
• per i giovani è tra formazione e lavoro, tra precariato e stabilità, tra professione e mercato del lavoro;
• per gli anziani è tra lavoro e retribuzione, tra valore e costo, tra autonomia ed eteronomia, tra professione e società.

Lo scarto nel suo insieme:
• rende ridicolo il numero programmato essendo esso la prova del suo fallimento;
• vanifica le statistiche europee che sostengono che i medici italiani non sarebbero pochi pur sapendo che essi soprattutto gli specialisti, sono sempre di meno;
• sgonfia la retorica dell’accademia che si vanta di fabbricare i migliori medici del mondo senza accorgersi di sfornare comunque dei disadattati tenuti ai margini del mercato del lavoro.

L’unico merito dello scarto è di rivelare l’espediente, cioè l’uso della demarcazione giovane/anziano ma per nascondere la contraddizione tra chi ha diverse posizioni nel mercato del lavoro. Per me non ci sarebbe scarto generazionale se quello economico-sociale dell’occupazione fosse risolto. Per me si tratterebbe di non considerare la condizione dei giovani come indipendente da quella degli anziani accettando di ragionare sulle loro intrinseche interdipendenze. Io credo che almeno da più di trenta anni i medici occupati concorrano loro malgrado a rendere in parte eccedente il proprio stesso lavoro. Ieri i medici difendevano il loro status occupazionale e retributivo e fino a un certo punto ciò non ha impedito di assorbire nuova manodopera, poi con la pletora medica (anni 80) cioè con un eccesso di domanda di lavoro immessa sul mercato, si è rotta la solidarietà tra generazioni di medici e chi era occupato si difendeva dal disoccupato tenendolo ai margini del mercato del lavoro.

Il segno di questa rottura è testimoniato nel 1982 dalla prima occupazione dell’ordine dei medici di Roma ad opera dei medici disoccupati. Oggi la rottura sussiste ancor più aggravata dalle politiche di decapitalizzazione del lavoro, dalla pesanti conseguenze della “questione medica”, dai processi di delegittimazione in corso. Oggi la svalutazione della professione medica produce minor spesa pubblica alimentando quel meccanismo che una volta si chiamava “esercito di riserva” cioè alimentando una cronica disoccupazione giovanile. Vorrei ricordare che il fenomeno del precariato 30 anni fa era un fenomeno di massa rispetto al quale quello di oggi è molto più piccolo, la differenza è che 30 anni fa la condizione della professione e del mercato del lavoro quindi della spesa pubblica non erano compromesse come ora per cui a quel tempo si poteva mettere mano a delle sanatorie di massa (legge 207 1985) cioè il pubblico soprattutto poteva assorbire quote ampie di precariato.

Oggi il precariato, anche se di proporzioni ridotte, è sempre più respinto dal pubblico e quindi meno assorbibile con una tendenza a cronicizzarlo in un esercito di riserva strutturato e permanente. Cioè, oggi il mercato del lavoro per i medici restringe il pubblico impiego, ricorre sempre più a soluzioni di lavoro low cost (cooperative, terzo settore, volontariato, outsourcing, privatizzazione, sub appalti prestazionali ecc) per cui la precarizzazione diventa stabile nelle forme più diverse. Alla fine tutti trovano qualcosa da fare o più cose da fare contemporaneamente ma a condizioni sempre più proletarizzanti.

All’origine di tutto questo c’è l’idea, soprattutto di questo governo, che si possa modificare la composizione del capitale della sanità, cioè riducendo soprattutto la sua parte variabile, quella rappresentata dal lavoro professionale e quindi dal costo delle retribuzioni. I dati recenti della Banca d’Italia a questo proposito sono eloquenti. Le professioni ormai sono il capitale variabile del sistema sanitario. La diminuzione del loro costo fa sì che il blocco dei contratti, del turn over, o il costo zero o il demansionamento, il dumping salariale, siano funzionali a costanti livelli di precarizzazione e di disoccupazione. Oggi i giovani medici rappresentano di fatto una forma di eccedenza molto diversa da quella che una volta si definiva pletora e che ha però tutti i caratteri di quella che oggi definirei una sovrappopolazione professionale relativa alle condizioni imposte al lavoro medico.

Per questo la distinzione giovani/anziani ha poco senso, mentre ha più senso quella tra medici diversamente svantaggiati in rapporto al mercato del lavoro nel suo complesso. La distinzione ha ancor meno senso perché i giovani medici sono tali in tutti i tempi e nello stesso modo, perché in tutti i tempi i giovani sono disoccupati e quei medici disoccupati sono in competizione con quelli occupati. Tutti i giovani medici che ho conosciuto da quando ho messo piede in sanità, a partire da coloro che occuparono l’ordine di Roma, sono tutti inevitabilmente immanentisti, cioè giustamente preoccupati prima di tutto del loro essere materiale, della loro personale condizioni, della loro situazione precaria. Oggi come ieri i giovani medici sono molto preparati nei confronti della contingenza ma del tutto incapaci a mettere la contingenza in una strategia. Ieri questo non era un problema perché non si poneva come oggi la questione strategica di quale professione. Ma oggi è diverso. Chiedere simbolicamente la grazia a S.Gennaro è chiedere una soluzione immanente ai problemi occupazionali. Ma il senso di chiedere la grazia non è diverso da quello delle principali proposte che leggo sempre con grande interesse e sulle quali non ho nulla da eccepire almeno sul piano tecnico.

Sono proposte ovviamente necessarie per stare con i piedi per terra ma che, proprio per stare con i piedi per terra, non possono essere disancorate da una strategia volta principalmente a riformare in senso ampio la professione, le sue organizzazioni, le sue prassi e i suoi valori. Vedo nei confronti di questa necessità resistenze tanto da parte dei giovani che degli anziani, ma se per gli anziani il cambiamento riformatore è più difficile, mi aspetterei dai giovani più attenzione nei suoi confronti, anche solo perché essi hanno maggiori necessità di farlo e sono più in divenire degli altri. Se difronte al cambiamento, sia i giovani che gli anziani hanno le stesse difficoltà, ancora di più la differenza generazionale perde di senso. Se i giovani sono sostanzialmente invarianti come gli anziani (alcuni dicono che sono anziani camuffati da giovani o giovani nati vecchi), allora il loro pragmatismo è una forma di invarianza.
 
A Salerno ho sentito proposte interessanti sull’uso del job act a tutele crescenti per i medici precari e disoccupati, altre che ho giudicato assurde che proponevano di legare i Lea alla definizione delle piante organiche. Ma il punto è un altro: basta il job act a tutele crescenti o tante altre proposte pragmatiche per affrontare i nodi strategici della professione? Se oggi il lavoro decapitalizzato è concausa della precarizzazione allora la ricapitalizzazione del lavoro è condizione fondamentale per battere la precarizzazione. Allora chiedo a Giulia Bartalucci presidente Federspecializzandi e a Domenico Montemurro Presidente Anaao Giovani, che ho avuto il piacere di ascoltare a Salerno, come ricapitalizziamo la professione per far lavorare i medici che escono dalle università? Cioè quale riforma della professione per quale mercato del lavoro?

Se fossi un giovane medico e potessi chiedere e ottenere una grazia da S. Gennaro non gli chiederei un posto di lavoro ma di liberarci dai nostri storici crampi mentali. Una volta guariti per la professione intera si aprirebbero nuove possibilità occupazionali. Se ognuno di noi chiedesse una grazia per sé o per la propria generazione, e la professione continuasse a degradare, succederebbe quello che teme Troise, cioè la sconfitta del medico segnerà la sconfitta del sistema (QS 8 giugno 2015). Oggi il campo di battaglia per non essere sconfitti, unico in grado di ricostruire o distruggere dei valori, è prima di tutto il lavoro e il suo mercato. Poi tutto il resto.

Ivan Cavicchi 

10 giugno 2015
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