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Indennità di rischio anche a chi opera nell’emergenza-urgenza, come previsto per terapie intensive

di Domenico Della Porta

Ci troviamo infatti di fronte a medesime performance, stesse caratteristiche, esigenze organizzative sovrapponibili tra servizi di emergenza e terapie intensive che non faranno sicuramente scandalizzare nessuno di fronte ad una equiparazione di riconoscimento della indennità di rischio

06 FEB - Alla luce delle scale di probabilità e gravità dei rischi utilizzate sui luoghi di lavoro per la Valutazione dei rischi previste  dalla normativa in materia di salute e sicurezza sul lavoro (D.Lgs:81/08),  sarebbe giusto riconoscere l’indennità di rischio e di lavoro disagiato anche al personale medico ed infermieristico dei servizi di emergenza ed urgenza parimenti ai loro colleghi delle unità già individuate dal vigente CCNL, (terapie intensive e sub intensive).  
 
E’ una delle soluzioni che Tiziana Frittelli, Presidente di Federsanità ANCI, ha lanciato proprio da questo giornale (Quotidiano Sanità del 3 febbraio 2019), la cui fattibilità è percorribile se si pensa che all’epoca della  promulgazione dell’attuale CCNL per i medici non vigeva ancora il D.Lgs. 81/08.
 
In Medicina e Sicurezza del Lavoro, infatti, la capacità dell’individuo di dominare il rischio deriva dalla somma di tre fattori:
Qualificazione del personale in rapporto alla mansione assegnata(soggetto qualificato ed esperto, soggetto qualificato od esperto, soggetto non qualificato e senza esperienza);
Fattori fisiologici:adattamento fisico e psichico del soggetto alla mansione assegnata;
 
Organizzazione del lavoro:  procedure/modalità operative/consegne aventi un riflesso sulla sicurezza che possono essere formalmente codificate e rigorosamente rispettate; codificate, ma non rispettate sistematicamente; né codificate né rispettate.
 
La violazione di uno o più di questi fattori graduata con le Scale di Probabilità e Gravità dei rischi,  espone il personale dei servizi di emergenza ed urgenza ad un rischio altamente o francamente probabile con una correlazione diretta tra la mancanza rilevata ed il verificarsi del danno per i lavoratori.
 
Come abbiamo sottolineato in un nostro approfondimento (Quotidiano Sanità del 12 gennaio 2019) ci troviamo  di fronte ad  “un chiaro rischio psico-sociale che può generare - se non opportunamente valutato,  gestito, rimosso o minimizzato, secondo gli schemi di valutazione del rischio collegati alla corretta applicazione del d.lgs.81/2008 -  sia  infortuni sul lavoro, sia malattie professionali.
 
Queste ultime, se si considera l’European  Statistic of Accident at Work sono indicate chiaramente  nei codici 82 (violenza tra dipendenti  in servizio nella stessa azienda) e codice 83 (violenza da persone esterne all’azienda) quali patologie legate a causa violenta in occasione di lavoro subita da terzi sia di tipo fisico che di tipo psicologico.
 
Si tratta di tecnopatie “non tabellate”  di cui si può ottenere il riconoscimento dall’INAIL  attraverso il cosiddetto  “sistema misto” dove è necessario l’onere della prova da parte del lavoratore.  I risultati di un interessante studio osservazionale prospettico su 50 aggressioni  della durata di due anni condotto da Michele Sanza, direttore del Dipartimento Dipendenze Patologiche AUSL Romagna-Cesena,  e collaboratori “La valutazione dell’impatto delle aggressioni sul benessere psicologico del personale sanitario”, pubblicato l’anno scorso dalla rivista Politiche Sanitarie, confermano, tra l’altro, l’insorgenza della depressione, insieme ad altri disturbi più o meno gravi, tra chi è stato oggetto di aggressioni psicologiche.
 
Questi episodi  interessano quasi il 70 per cento delle violenze psichiche tra  quelle di cui si è avuta notizia dalle diverse rilevazioni fino ad oggi registrate.  Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità entro il 2020 proprio la depressione diventerà la seconda causa di malattia (con annessi costi sociali ed economici) nel Mondo sviluppato.
 
Considerando tutti i tipi di difficoltà con cui devono fare i conti gli operatori sanitari proprio nei servizi di emergenza ed urgenza  (affollamento, pressioni per ottenere prestazioni al più presto, carenza di personale, violenze ed aggressioni), oltre ai disagi di natura ergonomica, si ritiene che il loro stato di salute sia compromesso in pari misura dei loro colleghi cui già è riconosciuta la indennità di rischio.
 
Sono infatti presenti, sempre nelle unità di urgenza ed emergenza, problemi fisiologici (intensità di lavoro, livelli di carico, fatica fisica); problemi anatomici (spazio dell’operatore in lavoro); problemi psicologici (processi psichici in rapporto al lavoro, fatica mentale); problemi biologici nella organizzazione del lavoro (squadre, orari, turni, ritmi); condizioni microclimatiche nel posto di lavoro (temperatura, ventilazione, rumore, illuminazione, inquinanti). 
 
Non va, poi,  trascurato l’aumento dell’età degli operatori con il blocco del turn-over: l’età media che consente una eccellente partecipazione alle attività lavorative impegnative che richiedono una elevata attenzione viene indicata in psicotecnica a 47 anni.
 
Oltre tale soglia la produzione è ancora buona purché venga ridotta la cadenza, semplificati i segnali, concessa la possibilità di autoregolazione del ritmo.  Di fronte al genere occorre tener conto delle misure antropometriche minori, dei minori carichi tollerabili, della maggiore variabilità emotiva e neurovegetativa  nella donna.
 
La funzione della vigilanza assume particolare rilievo nel comparto sanità. Per quanto riguarda i contenuti dei servizi di emergenza e urgenza sono più o meno sovrapponibili a quelli delle terapie intensive definite come“un servizio per i pazienti con malattia potenzialmente recuperabile che possono beneficiare di una più attenta sorveglianza e di un più intenso trattamento di quelli forniti nei comuni reparti di degenza”.
L’elevato livello di assistenza è assicurato da: disponibilità di adeguate risorse umane, elevata competenza del personale che opera nella struttura, buon livello organizzativo che permette un elevato grado di operatività, disponibilità di mezzi strumentali e di ambienti idonei.
 
Ovviamente il livello di qualità di una terapia intensiva non è determinato solo dalla modernità della struttura, dal livello di tecnologia disponibile o dal grado di preparazione dello staff che in essa opera.C’è bisogno  prima di tutto un team ed è principalmente dalla efficacia del lavoro che scaturisce il livello qualitativo della struttura.
 
Un gruppo non coordinato, infatti, pur in presenza di dotazione strumentale tecnologicamente avanzata dà luogo ad un livello di prestazioni qualitativamente mediocre; un team perfettamente coordinato, invece, anche in presenza di risorse tecnologiche limitate eleva il livello qualitativo delle prestazioni e quindi della struttura.
 
Un elevato livello di assistenza comporta degli elevati costi di gestione e per questo motivo l’utilizzazione delle risorse economiche sanitarie va razionalizzata al massimo tramite :Ricovero congrui;Riduzione della degenza media ottenibile tramite il trasferimento dei pazienti cronicamente critici dalla Unità di Terapia Intensiva Generale in altre aree di trattamento con livello di assistenza intermedio tra quest’ultima e la degenza ordinaria.
 
Ci troviamo, dunque di fronte medesime performance, stesse caratteristiche, esigenze organizzative sovrapponibili tra servizi di emergenza e terapie intensive che non faranno sicuramente scandalizzare nessuno di fronte ad una equiparazione di riconoscimento della indennità di rischio.
 
Domenico Della Porta
Docente di Medicina del Lavoro Università Telematica Internazionale Uninettuno-Roma
Delegato alla Prevenzione e Sicurezza Lavoratori e Strutture sanitarie Federsanità ANCI

06 febbraio 2019
© Riproduzione riservata

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