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La “questione medica” e la questione femminile

di Ornella Mancin

29 GEN - Gentile direttore,
è vero quello che è stato scritto: le donne medico sono sempre di più e ormai ci si sta avvicinando rapidamente alla parità numerica tra maschi e femmine, con una prevalenza attuale della componente femminile nelle fascia under 40. Ma il dato ancor più significativo è che nelle facoltà di medicina i futuri medici saranno donna all’incirca intorno al 65-70 %. Cioè a breve nella nostra professione ci sarà una vera e propria transizione di genere.

Mentre questo avviene, si impone all’attenzione di tutti la medicina di genere cioè la necessità di ripensare un intero paradigma scientifico alla luce di una specificità.

Il genere in questo caso è una specificità innegabile che vale tanto sul piano della rappresentanza tanto sul piano scientifico. Le donne e gli uomini medici in un prossimo futuro dovranno curare le donne in quanto donne, vale a dire ri-commisurare le loro pratiche cliniche ad un nuovo referente clinico che è il genere ,quindi far coesistere in sostanza due medicine in una medicina.
Ed è proprio per questo che risulta piuttosto stridente la discrepanza tra una specificità che si impone perfino sul piano scientifico e la stessa specificità che viene invece negata sul piano professionale.

Che nel comitato centrale della Fnomceo non ci sia una sola donna vale come la negazione di una doppia specificità, cioè vale come il prevalere, nonostante tutto, di una medicina al maschile e vale come il prevalere nonostante tutto di una rappresentanza pure al maschile. Cioè vale come un mostruoso anacronismo.

Il problema della rappresentanza femminile in campo medico del resto non è limitato solo alla Fnomceo, ma è un problema che investe gli Ordini Provinciali, i sindacati , l’Enpam, le società scientifiche… in pratica tutto l’universo della governance della professione: di fatto la componente femminile manca di rappresentatività in tutti i maggiori organi di governo della professione. Si potrebbe affermare che vi sia un “vulnus” nella democrazia rappresentativa della classe medica.

Nonostante tutto questo, a dispetto del mondo che cambia e della realtà che muta, e proprio nello stesso tempo in cui la Fnomceo ha cambiato il proprio quadro dirigente e a giudicare dalla mozione approvata sulla “questione medica” anche la propria strategia, non ci si cura di rappresentare la propria professione come questa meriterebbe.

Nella “mozione” presentata alla vigilia delle elezioni , nella quale riconosco pienamente i miei problemi giornalieri di medico, si dice che bisogna fare una piattaforma perché bisogna coordinare tutti gli interventi diversi che servono per affrontare una questione complessa.

Ma in questa “piattaforma” quale ruolo avrà la doppia specificità di cui parlavo prima? E questa doppia specificità chi si incaricherà di scriverla, di indagarla, di organizzarla in proposta e in azione politica? Di rappresentarla nell’azione ordinaria della Fnomceo?

Un comitato centrale fatto da soli uomini che si giustifica e si nasconde dietro l’alibi dell’Osservatorio per le donne? Ammettendo le donne ai margini di una scelta e di una decisione sulla quale esse non hanno null’altro che una funzione consultiva?

Io penso che questo non gioverebbe a nessuno, prima di tutto alle donne medico ma soprattutto alla Fnomceo.

Non possiamo nasconderci le contraddizioni; veniamo da una presidenza Fnomceo al femminile che, suo malgrado, oggi ci consegna una Fnomceo da ripensare, da riorientare nelle sue linee strategiche, con una professione colpita come non mai nella propria identità, e oltretutto, oggettivamente più maschile che mai.

Prima l’obiezione della rappresentanza di genere non si poteva fare perché addirittura la presidente era una donna ma ora che il presidente è un uomo le contraddizioni vengono fuori. Ma questa è la dimostrazione che il problema delle donne medico non si risolve neanche mettendo una donna al vertice del sistema e che le sue contraddizioni rimandano al sistema di rappresentanza in quanto tale. Come a dire che la questione è strutturale.

Ma se è così cioè se la nostra rappresentanza non funziona nel senso che non rappresenta completamente la realtà della nostra professione, hanno ragione coloro che in questi anni hanno sostenuto che il problema della rappresentanza è parte costitutiva della questione medica.
Ma come si pensa, a proposito di piattaforma, di risolvere la “questione medica” se chi la dovrebbe risolvere non è adeguato alla realtà che essa rappresenta? Cioè se esiste una asimmetria tra rappresentanza e realtà da rappresentare?

La misoginia implicita legata all’esercizio del potere di rappresentanza (perché non può essere negato che rappresentare significa potere e vantaggi) nei confronti del mio genere è espressione di uno scollamento tra la società che corre veloce e un sistema che non è in grado di evolversi nel tempo e che più che guardare avanti guarda indietro.

Ma se il sistema, così come è confezionato, non lascia spazio alle donne, quanto dovremo ancora aspettare prima che il rinnovamento da tutti auspicato, sia in grado di dare anche alle donne la possibilità di sedere ai tavoli decisionali della professione?
E come può una professione che volge rapidamente al femminile, essere rinnovata, senza il contributo di chi vive in prima persona i problemi del suo genere?

Credo sia necessario trovare una via d’uscita rapida ed efficace. Non è più il tempo dell’attesa.

Non penso che la risposta si possa trovare nella proposta del dottor Benci (QS 24 gennaio) che ritiene di risolvere la questione con una “legge” dello Stato, perché a parte una mia certa diffidenza verso leggi fatte sulla testa dei medici e contro i medici, credo profondamente che il problema della rappresentanza rientri nell’ambito della autonomia della professione. Che gli ordini siano enti pubblici non giustifica che le forme della rappresentanza siano legiferate dallo Stato.

E’ con questi interrogativi e con le mie perplessità che ho salutato con favore l’ intervista del presidente Anelli che si è detto disponibile a un possibile recupero delle donne, anche se l’idea di recuperare “in qualche modo” le donne in corso d’opera non mi convince più di tanto.

Resto fermamente convinta che le donne debbano sedere là dove si prendono le decisioni, con uguale dignità dei colleghi maschi.

Cioè se il reattore del sistema è il comitato centrale le donne ne devono far parte. Cioè devono essere reattore.

Vorrei chiarire che non ne faccio solo una questione di democrazia rappresentativa che pur resta una questione importante e incontrovertibile (questione come abbiamo visto che ha deciso sul piano sindacale quanti uomini e quali uomini debbano sedere nel comitato centrale) ma ne faccio una questione di pertinenza, nel senso che le donne devono sedere nel comitato centrale perché esse sono semplicemente le più indicate a rappresentare quella doppia specificità di cui parlavo prima oltre alle altre problematiche che rientrano nella “questione medica”.

In sostanza nella “questione medica” vi è una questione femminile rispetto alla quale tocca alle donne in prima persona farsene carico. Essa non è delegabile e nemmeno riducibile a consulenza tecnica.

Non è più il tempo delle riserve indiane, non è più il tempo di relegare le donne in organismi a se stanti da dove possono uscire idee che raramente hanno la forza di incidere sulla professione.

Ma cosa fare? Tra una proposta di legge che nessuno di noi vorrebbe e una proposta di razionalizzazione del sistema di rappresentanza disposta forse a mettere donne ovunque ma non nel comitato centrale, la proposta di Cavicchi (QS 25 gennaio), che qui ringrazio per avermi inserito nella lista di quelle donne da lui ritenute portatrici di idee , di indennizzare intanto le donne espropriate di un diritto alla rappresentanza, derogando dai criteri convenzionali provvedendo a cooptarne un certo numero nel comitato centrale, mi sembra alla fine quella più convincente.

In fin dei conti questa proposta non spariglia niente, non mette in discussione gli equilibri raggiunti, si limita a dare avvio ad un percorso di ripensamento che avrà i tempi che avrà ma a partire da un gesto concreto e significativo, cioè da un vero riconoscimento politico.

La vera partita sulla quale la Fnomceo è chiamata a pronunciarsi è quella di mettere in discussione sul piano della rappresentanza, la logica della ausiliarietà delle donne nei confronti di una rappresentanza ingiustificatamente solo maschile e in quanto tale assoluta.

La proposta di Cavicchi è ragionevole perché dice di rendere almeno relativa l’assolutezza di questa rappresentanza maschile cioè non pretende di sovvertire niente ma solo di attenuarla un po’.

Lo scopo vero non è quello di lavorare per le donne ma di lavorare per la Fnomceo anche attraverso le donne e più precisamente di lavorare alla “questione medica” definendo una piattaforma che abbia dentro la doppia specificità di cui parlavo prima in modo tale che la piattaforma diventi un vantaggio scientifico per la medicina, un vantaggio ordinistico per la professione, un vantaggio di credibilità politica per la Fnomceo e un vantaggio sociale per la società.

Ornella Mancin
Medico di Famiglia
Cavarzere 


29 gennaio 2018
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