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Quelle dottoresse col velo non “gradite” in Veneto

di Luciano Cifaldi

09 GEN - Gentile Direttore,
desta più di qualche preoccupazione leggere la notizia che ad alcune ginecologhe e pediatre somale, sudanesi, palestinesi e irachene di religione musulmana che hanno svolto attività lavorativa presso strutture private in Veneto, non sarebbe stato rinnovato il contratto di lavoro pur nella carenza più volte evidenziata di specialisti.
 
La loro colpa sarebbe quella di avere coperto i capelli e parte del viso con un foulard o un velo, e non stiamo parlando del burqa, l’abito che nasconde quasi completamente il viso. La notizia è meritevole di approfondimento e di qualche riflessione. In Italia siamo solo impauriti o siamo diventati razzisti? Il termine razzismo identifica ogni tendenza, psicologica o politica che, fondando sulla presunta superiorità di una razza sulle altre, favorisca o determini discriminazioni sociali e violenze fino al genocidio.
 
La parola razzismo è importante e fa venire subito alla mente periodi storici orribili e ben definiti, ed altrettanto orribili comportamenti del genere umano rispetto ai propri simili con un colore della pelle diverso dal proprio o professanti un diverso credo religioso.
 
Le aggressioni verbali e fisiche ai medici ed agli altri operatori sanitari determinano un danno a carico degli stessi, ma più in generale anche a danno della collettività. Come Cisl Medici Lazio  continuiamo a parlarne pur consapevoli della difficoltà che abbiamo riscontrato nel determinare un concreto interesse sul fenomeno almeno fino ai giorni più recenti con gli avvenimenti di Napoli.
 
L’esacerbazione del fenomeno aggressivo in tutta la sua esasperazione è un dato di fatto ma che  possa trattarsi di discriminazione nei confronti della categoria medica non è invece così ovvio. Per parlare di discriminazione dobbiamo fare riferimento all’ambito del comportamento e degli atteggiamenti sociali e occorre che si determinino distinzione non paritarie attuate nei confronti di un individuo sulla base di un particolare gruppo sociale o religioso in cui la persona viene percepita come appartenente, anziché basandosi sui suoi singoli attributi.
 
La classe medica nel corso dei secoli è stata considerata come una classe sociale privilegiata. Poi l’evolversi della società ha visto l’affermarsi di professioni che per troppo tempo erano state ritenute ancillari a quella medica pur esprimendo professionalità fatte di saperi e di conoscenze e pur essendo dotate di caratteristiche favorevoli nel giudizio della collettività. Mentre queste professioni crescevano anche nell’immaginario comune oltre che nella concretezza dei propri atti, si è assistito nel tempo ad una lenta e progressiva modificazione dell’immagine del medico.
 
Sicuramente non ha aiutato la troppo spesso ingenerosa esposizione mediatica con il clamore di presunti casi di malasanità rivelatisi il più delle volte infondati. E sicuramente non ha aiutato la storica divisione della categoria medica in tanti rivoli di interessi contrapposti oppura la storica separazione in tanti sindacati di categoria, differenti nei dati numerici di rappresentatività e disomogenei nei programmi.
 
Ed è anche vero che se la buona sanità non ci lascia indifferenti tuttavia non evoca forme di positivo interesse collettivo visto che nella aspettativa del singolo cittadino la sanità deve funzionare alla perfezione, almeno quella che lo riguarda nella sua individualità. Non si spiega altrimenti lo scarso interesse suscitato da una notizia “all’ospedale Niguarda di Milano 30 ore in sala operatoria in cinque giorni per trapiantare 15 organi in 11 pazienti. Una maratona tra la fine del vecchio e l’inizio del nuovo anno, per i chirurghi dell’ospedale milanese, che ha permesso di salvare la vita di tante pazienti, e tra loro anche due bambini. Un superlavoro che ha coinvolto chirurghi, rianimatori, infermieri, biologi, patologi e tecnici”.
 
Nulla di prodigioso forse ma sicuramente il pieno merito deve essere attribuito a tutti questi professionisti della sanità pubblica che, ognuno per le rispettive competenze, ha svolto il proprio lavoro proprio nei giorni in cui la stragrande maggioranza delle persone era alle prese con ben altri pensieri goderecci. E l’augurio va a questi 11 pazienti affinchè l’opera di queste equipes sortisca risultati favorevoli in termini di sopravvivenza e di qualità di vita.
 
Perché nessuno può sapere a priori se l’operato di un medico avrà sempre e comunque un esito favorevole ma, purtroppo, questa è una aspettativa che troppi hanno e confondono il doveroso buon operato con l’obbligo di guarigione. Non si spiegherebbero altrimenti le reazioni di quanti aggrediscono un medico a fronte di una notizia funesta. Vanno giustificate le aggressioni legate a situazioni particolari quali patologie psichiatriche o l’uso voluttuario di sostanze stupefacenti o etiliche?
 
Vanno giustificate quelle condizioni emotive che portano ad aggredire i medici e gli infermieri nel pronto soccorso perché si è in ansia per il proprio figlioletto tanto alla fine si troverà sempre chi ne riconoscerà ogni circostanza attenuante?
 
Vanno giustificati quanti non accettano il colore bianco o verde loro attribuito in PS e sfasciano tutto perché pretendono di essere visitati prima di altri regolarmente in attesa?
 
E allora a questo punto dovremmo giustificare tutto perché evidentemente i medici devono espiare una colpa, quale sia mi sfugge, perché altrimenti non si capisce il silenzio che spesso ha accompagnato la notizia di ogni ennesima aggressione. Che colpe hanno i nostri camici bianchi: colore della pelle? appartenenza religiosa? origini geografiche? E qui si innesta l’ulteriore evoluzione del pensiero negativo nei confronti dei medici: discriminazione di razza e di religione, come sembra essere accaduto in Veneto dove c’è chi sembra essersi rifiutato di sottoporsi a visita medica perché sotto il camice bianco, espressione di appartenenza ad un contesto sociale percepito come privilegiato, c’era un colore della pelle o un modo di vestire non graditi. Questo è oggettivamente inaccettabile.
 
Viviamo già in un Paese diviso tra fazioni e gli slogan della politica esacerbano condizioni divisive proprio quando dovremmo ritrovare un forte spunto etico, una condivisione di valori. I camici bianchi non sono senza peccato ma è assurdo identificarli come nemici o rifiutarli perché di altro credo religioso. Poi è chiaro che il periodo è particolare per le tante tensioni sociali, la disoccupazione, l’incertezza del lavoro e se vogliamo pure il contesto internazionale ma tutto questo non può giustificare né il lancio di un petardo contro un’ambulanza e neppure la discriminazione religiosa perché evocatrice di scenari che hanno origine proprio nella intolleranza.
 
Le tensioni sociali non possono giustificare gli assalti con le più svariate armi di offesa, dai pugnali alle pistole passando per la motosega. A quando l’artiglieria si chiedeva qualcuno in un twitter. Già, a quando? Forse molto presto se continua questo andazzo di cose e se continueremo ad essere tolleranti verso gli aggressori o peggio ancora menefreghisti verso episodi, come quelli del Veneto, meritevoli di riflessioni.
 
Luciano Cifaldi
Oncologo, segretario generale Cisl Medici Lazio

09 gennaio 2020
© Riproduzione riservata

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