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Colombo (Ospedale Maggiore): “La situazione italiana è unica al mondo”


24 APR - L’Italia è il Paese europeo con il maggior numero di soggetti con HCV e detiene il triste primato di mortalità in Europa per tumore primitivo del fegato. Massimo Colombo, Direttore Dipartimento di Medicina Specialistica e dei Trapianti d’Organo dell’Ospedale Maggiore, Università degli Studi di Milano , ci spiega l'unicità del caso Italia.
 
“In Italia circa 1.200.000 persone sono cronicamente infettate dal virus dell’epatite C e di queste almeno il 25%  ha cirrosi. Questa a sua volta se non curata predispone al tumore del fegato che ogni anno colpisce circa 5.000 individui”, ha spiegato l’esperto. “Non è detto che l’Italia sia il paese con maggiore prevalenza in Europa perché mancano i dati di molti paesi dell’Est Europa. Fortunatamente l’incidenza di nuovi casi di epatite C è in drastico declino negli ultimi 20 anni, grazie all’applicazione di efficienti modalità di prevenzione primaria, una su tutte lo screening del sangue donato che insieme alla diffusione di materiale  sanitario non riciclabile ha abbattuto decisamente la trasmissione dell’epatite in famiglia e negli ospedali. Di conseguenza, negli ultimi anni è calato anche il numero di morti per cirrosi ed epatocarcinoma da epatite virale mentre rimane il considerevole problema medico sociale ed economico delle vecchie infezioni.  La popolazione italiana con epatite cronica C può essere divisa in due gruppi: la maggioranza (circa 900.000 persone) che ha contratto l’infezione mediante trasfusioni e siringhe infette negli anni ‘50-’70; è una popolazione abbastanza anziana, spesso oltre i 70 anni, con molte comorbilità come diabete, abuso di alcol, sovrappeso corporeo, ipertensione e tumori. Questi pazienti sono i più indicati al trattamento della epatite virale C perché hanno maggiore rischio di morire per complicanze di fegato come la cirrosi e il tumore, ma a causa delle suddette comorbilità sono anche i peggiori candidati alle cure attuali basate sull’interferone, generalmente mal tollerato e poco efficace proprio negli anziani con insufficienza renale e nei cirrotici.  Il secondo gruppo (circa 300.000 persone) ha contratto l’infezione attraverso rischi parenterali più voluttuari compreso l’uso di droghe in vena; sono più giovani (30-50 anni) e tolleranti alle terapie a base di interferone. In questi pazienti, tuttavia, la più frequente causa di morte non sono le complicanze epatiche,  bensì fattori legati al loro stile di vita (droga, HIV, alcol, incidenti ...) non modificabili dalla cura anti HCV”.
 
La progressione della malattia epatica legata all’HCV è un elemento cruciale della lotta a questo problema sanitario. “L’evoluzione della infezione varia da individuo a individuo – ha infatti spiegato Colombo – ed è molto influenzata dai  cosiddetti “cofattori” capaci di accelerare la progressione del danno epatico. Considerando 100 persone con epatite cronica circa il 30% evolverà in cirrosi, mentre il 60 - 70% mantiene un danno epatico più lieve. La differenza tra i due gruppi la fanno i cosidetti cofattori: età e modalità di infezione, presenza di malattie metaboliche congenite come diabete, sovrappeso, ipertensione arteriosa, dislipidemia e lo stile di vita (fumo e alcol) sollecitano la progressione dell’epatite. Un cofattore importante sono le malattie che compromettono lo stato delle difese immunitarie, una su tutte l’HIV. Il paziente libero da questi cofattori ha più probabilità di avere un’infezione che si protrae per decenni senza esitare in cirrosi”.
 
Ma quali sono dunque ad oggi le criticità più rilevanti dal punto di vista della cura dell’epatite C? “La comunità scientifica di tutta Europa ha un parere univoco:  la attuale cura dell’epatite C tiene conto di tre drivers principali.  Il costo dei farmaci che è sempre crescente: siamo passati da 5.000-8.000 euro per la terapia duale con interferone agli attuali oltre 25.000 per la cura triplice per il genotipo 1 mentre i nuovi farmaci potranno avere costi ancora maggiori”, ha spiegato ancora. “Il secondo driver  è la sicurezza, cioè il livello di tossicità dei farmaci, che non è certo una prerogativa dell’interferone, potente soppressore del midollo.  Il terzo e ultimo driver è la capacity, ovvero la forza lavoro dei centri di epatologia.  E’ chiaro che un paziente, con HCV genotipo 1 indicato alla terapia triplice (interferone + rivabirina + inibitore della proteasi del virus C), deve afferire ad una struttura assistenziale esperta e con competenze multidisciplinari rispetto ad un paziente in terapia duale. Quando avremo a disposizione  trattamenti sicuri con soli farmaci per via orale, i centri potranno essere più “snelli”.  I nuovi antivirali quindi risolveranno almeno due problemi nella cura dell’epatite C:  la sicurezza (in quanto non prevedono l’uso dell’interferone e non causano resistenza) e la capacity poiché facili da erogare. Rimane invece in sospeso la questione dei costi”.
 
Infine, il problema dei bisogni insoddisfatti del paziente affetto da epatite C. “In Italia, centinaia di migliaia di pazienti difficili da guarire (genotipo 1) non  hanno a disposizione una cura efficace contro l’epatite C”, ha concluso Colombo. “I nuovi farmaci vanno sempre somministrati con interferone, e sono farmaci non ben tollerati da tutti. Ricordiamo inoltre che i pazienti ultra 65enni, con scompenso clinico, che non possono essere salvati con il trapianto di fegato, non possono usufruire di questi nuovi farmaci perché mal tollerano l’interferone. Questo vale ancor più per i pazienti con epatite C trattati con un trapianto di rene o midollo nei quali l’interferone stimola il rigetto d’organo mentre solo una minoranza dei pazienti trapiantati di fegato e dei portatori di infezione HIV tollerano e rispondono all’interferone, e sono quindi in balia dell’epatite”.
 

24 aprile 2013
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