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Antibioticoresistenza. Usa: l’“incubo” dei superbatteri che mettono paura a 42 Stati


Non un solo microrganismo, ma una famiglia di batteri, si sta diffondendo sempre di più negli USA, tanto da mettere in allerta i CDC. Un nuovo allarme? No, semmai uno vecchio, quantomeno in Europa dove l’antibioticoresistenza è un problema che da anni sta diventando sempre più grave. Ecco le precauzioni da prendere.

07 MAR - Già lo chiamano “incubo”, tanto per capire subito con cosa si ha a che fare: le Enterobacteriaceae sono una famiglia di batteri – di cui fanno parte anche i più famosi Escherichia Coli, Klebsiella pneumoniae, Shigella e Salmonella – che sta incrementando la resistenza agli antibiotici che si sta lentamente diffondendo negli Stati Uniti, tanto da spingere i Centers for Disease Control and Prevention (CDC) statunitensi a mettere in guardia ospedali e centri sanitari.
 
Non succede spesso che il maggiore ente federale statunitense di sorveglianza sulla salute ammetta che c’è qualcosa di cui preoccuparsi. Stavolta, invece, sembra che i CDC prendano l’aumento della presenza di questo batterio negli ospedali degli USA piuttosto seriamente. E in effetti i numeri della diffusione di questo batterio cominciano a preoccupare: 42 sono gli Stati federali che hanno isolato nei propri ospedali almeno un caso di enterobatteri resistenti agli antibiotici standard; i ceppi resistenti sono almeno quadruplicati negli ultimi 10 anni; negli Stati Uniti solo nella prima metà del 2012 sono stati il 4,6% degli ospedali a diagnosticare la presenza di questo tipo di batteri sugli esseri umani, e addirittura il 17,8% delle strutture di lunga degenza. “Questo tipo di antibioticoresistenza pone un triplo rischio: il primo è rappresentato dal fatto stesso che questi batteri sopportano quasi tutti gli antibiotici di cui disponiamo, anche quelli da ‘ultimo tentativo’; il secondo è che uccidono circa la metà delle persone che hanno infezioni più gravi; e terzo possono diffondere la loro resistenza agli altri batteri”, ha spiegato martedì in una conferenza stampa Thomas Frieden, direttore dei CDC statunitensi. “Klebsiella, ad esempio, è capace di condividere con E. Coli il gene della resistenza, rendendolo a sua volta tollerante agli antibiotici. E su questa cosa abbiamo una finestra di azione piuttosto ridotta”.
 
Nei solo Stati Uniti, gli enterobatteri resistenti agli antibiotici sono infatti passati dall’1,2% nel 2001 al 4,2% nel 2011, ma la situazione in Europa è forse anche peggiore. In realtà infatti, questa preoccupazione non è nuova nel vecchio continente. Già da qualche anno l’antibiotico-resistenza è aumentata in maniera preoccupante soprattutto nei batteri Gram-negativi (di cui fanno parte proprio le Enterobacteriaceae) e già nel 2011 l’Iss aveva lanciato l’allarme che per questo tipo di microrganismi anche i farmaci più innovativi risultano inefficaci. Un problema che spaventa tutta l’Europa, ma soprattutto l’Italia. “La situazione dell’Italia, però, è ancora più preoccupante, in quanto, come mostrato dalla sorveglianza AR-ISS/EARS-Net nel 2010 la resistenza ad alcuni antibiotici di un batterio come la Klebsiella pneumoniae si è impennata improvvisamente passando in un anno dall’ 1,4% al 16% e dati di altri studi mostrano che la resistenza è aumentata ulteriormente nel 2011. In Europa alti livelli di resistenza di questo microrganismo sono presenti, oltre che in Italia, solo in Grecia”, fanno sapere dall’Iss.
 
Inoltre, già nel 2009, l’Organizzazione mondiale della sanità aveva definito la antibiotico-resistenza come una delle tre più grandi minacce alla salute umana. Tuttavia, la ricerca per lo sviluppo di nuovi antibiotici sta rallentando, e nel frattempo la loro efficacia diminuisce perché i batteri diventano sempre più tolleranti a questi farmaci. Eppure, per limitare questo pericolo, una delle azioni è molto semplice: far sì che gli antibiotici siano usati in maniera corretta o prevenire la diffusione di infezioni batteriche. Questi farmaci sono diventati talmente diffusi che la popolazione li usa – spesso “auto-prescrivendoseli” – anche quando non dovrebbe, come nel caso delle influenze, ovvero malattie virali per le quali questi medicinali sono inutili e addirittura dannosi. Inoltre, gli antibiotici sono usati anche in campo non terapeutico, come promotori della crescita in agricoltura, il che porta a una selezione naturale dei ceppi più resistenti.
 
In ogni caso, di precauzioni da prendere per limitare il problema ne esistono diverse. Ecco perché gli stessi CDC, tramite le parole di Frieden, hanno suggerito alcune importanti misure di contenimento del rischio negli ospedali, di cui molte sembrano piuttosto semplici:
- rinforzare le precauzioni contro le infezioni (ricordarsi sempre di lavare le mani, indossare camici e guanti, ecc);
- riunire tutti insieme nello stesso reparto i pazienti affetti da batteri resistenti;
- costringere ospedali e centri di assistenza ad avvertirsi a vicenda quando si spostano pazienti infetti da questi batteri;
- chiedere ai pazienti quando arrivano in ospedale o in clinica di dichiarare se hanno ricevuto cure mediche all’estero di recente;
- usare gli antibiotici in maniera prudente, cosicché i batteri non abbiano la possibilità di sviluppare resistenza ai farmaci più innovativi.
 
E soprattutto, evitare il normale schema di eventi: panico immediato e poi apatia totale, dopo appena qualche giorno. Anche perché il panico non serve, soprattutto quando le indicazioni da seguire per limitare i danni – sia per i professionisti che per la gente comune – sono così logiche e per nulla difficili da seguire.
 
Laura Berardi

07 marzo 2013
© Riproduzione riservata

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