I relatori delle Commissioni riunite Giustizia e Sanità del Senato hanno depositato una serie di emendamenti molto restrittivi al testo base sul fine vita. Il legislatore punta a inserire una lunga serie di paletti, procedure complesse e, soprattutto, una netta esclusione del Servizio Sanitario Nazionale da ogni forma di coinvolgimento. Una linea dura che, almeno per alcuni tratti, sembra più orientata a frenare che a regolamentare l’accesso al fine vita. Vediamo perché.
Tutto parte da un’affermazione secca e inequivocabile: “In nessun caso la legge riconosce alla persona il diritto a ottenere aiuto a morire.” È questo il cuore dell’emendamento 1.100. Non si parla di diritto, dunque, ma solo della possibilità che, in condizioni molto precise, chi agevola il suicidio di una persona gravemente sofferente non sia punibile, così da evitare qualunque tipo di ombra sulla possibilità di aperture (anche future) a prospettive di tipo eutanasico.
Non si riconosce dunque la libertà di scelta come diritto individuale, ma si fissa una possibilità eccezionale, fortemente regolata e subordinata a una verifica centralizzata.
Le condizioni per l’accesso al fine vita? Rigidissime
Le condizioni per accedere alla procedura di non punibilità sono tanto dettagliate quanto stringenti: lo stabiliscono ulteriormente gli emendamenti 2.100 e 2.200. La persona deve essere:
– Maggiorenne;
– Inserita in un percorso di cure palliative;
– Tenuta in vita da trattamenti sostitutivi di funzioni vitali;
– Affetta da una patologia irreversibile;
– Sofferente in modo fisico o psicologico, in modo intollerabile e, la novità introdotta dai relatori, “incoercibile”;
– Pienamente lucida, capace di intendere e di volere.
Ogni parola conta. “Incoercibile”, ad esempio, introduce un criterio ancora più stringente, che potrebbe ridurre ulteriormente il numero dei casi ammissibili. La valutazione sarà affidata non a un medico qualunque, ma al Centro di coordinamento nazionale dei comitati etici territoriali, che assumerà un ruolo centrale.
Una procedura lunga e centralizzata
Con l’emendamento 4.100, la procedura per valutare le richieste diventa ancora più articolata. Il Centro di coordinamento, che si trasforma in una sorta di “autorità centrale del fine vita”, sarà composto da un team multidisciplinare: giuristi, bioeticisti, medici specialisti, psicologi, infermieri, farmacologi.
La procedura? Sarà tutt’altro che rapida:
– Dopo la presentazione della richiesta, il Comitato etico territoriale ha 60 giorni per dare un parere (non vincolante).
– Il Centro ha poi altri 60 giorni per deliberare, eventualmente chiedendo ulteriori accertamenti.
– Il tutto può essere prorogato di altri 30 giorni.
E, fatto ancora più significativo: non è previsto alcun termine massimo vincolante. In altre parole, non esiste un limite di tempo entro cui il procedimento debba essere chiuso. Nessun automatismo, nessun silenzio-assenso. In questo quadro, la possibilità per il paziente di ritirare la richiesta in qualsiasi momento sembra più un dettaglio formale che una garanzia concreta di autodeterminazione.
Il punto più controverso: il Ssn resta fuori
L’emendamento che colpisce più di tutti, anche per le sue implicazioni pratiche, è l’introduzione dell’articolo 4-bis. Qui si sancisce senza mezzi termini che: “Il personale in servizio, le strumentazioni e i farmaci, di cui dispone a qualsiasi titolo il servizio sanitario nazionale non possono essere impiegati per agevolare l’esecuzione del proposito suicidario”. In altre parole: nessun medico del Ssn, nessun infermiere pubblico, nessun ospedale, farmaco o strumentazione potrà mai essere utilizzato per aiutare un paziente a morire, anche se in condizioni disperate e anche se ritenuto non punibile. L’intero sistema sanitario pubblico viene escluso dal percorso, che dovrà necessariamente avvenire al di fuori, con risorse e strutture private. Una scelta che rischia di introdurre gravi disparità.
Più che riconoscere il diritto al suicidio medicalmente assistito, gli emendamenti sembrano orientati a rendere ancora più difficile percorrere questa via per i pazienti che ne faranno richiesta. E, soprattutto, si alza un muro tra il paziente e lo Stato: il Ssn si tira fuori, lasciando ogni onere – organizzativo, clinico, psicologico ed economico – sulle spalle dei malati e delle loro famiglie.
Giovanni Rodriquez