Gentile direttore,
nel dibattito su una ridefinizione della medicina generale - che sta animando, forse in modo troppo pervasivo rispetto alle tante questioni aperte, il mondo della sanità - colpisce che il focus dell’attenzione riguardi esattamente la fine di un eventuale percorso di riforma, cioè la tipologia del contratto di lavoro. Quanti difendono il modello attuale sottolineano la scelta fiduciaria e la soluzione sartoriale di un medico che si adatta alle esigenze del paziente, piuttosto che timbrare il cartellino; quelli che propendono verso il modello della dipendenza puntano sulla continuità della presenza dei medici di medicina generale, che sarebbe garantita dalla loro disponibilità all’interno delle Case della comunità.
Dal punto di osservazione di un cittadino, la forma contrattuale non ha ovviamente la stessa centralità che per gli addetti ai lavori, soprattutto perché finisce col rimuovere completamente gli interrogativi da risolvere prima di intervenire sull’ultima tessera del mosaico; e anche perché la dipendenza contrattuale non è sinonimo di efficacia nella risposta dei servizi, come testimonia l’esperienza di ambienti, il pronto soccorso o alcuni reparti o specializzazioni ospedalieri, dove il personale è dipendente, ma la rarefazione del personale e dei servizi è critica o supercritica comunque.
Allora, partiamo dalle due cose importanti per un cittadino nel rapporto con il medico di medicina generale, le due garanzie di cui egli avrebbe bisogno: una è la garanzia della vicinanza, in particolare per i tanti cittadini anziani spesso malati o plurimalati, che hanno bisogno di una porta di accesso prossima al Servizio sanitario; e l’altra di una presa in carico adeguata rispetto al suo bisogno di salute, che potrebbe, anzi dovrebbe, essere anche preventiva come è il caso della popolazione giovane.
Riguardo alla questione della vicinanza, nel proporre un passaggio dei medici di medicina generale alla dipendenza nelle Case della comunità, occorrerebbe rispondere innanzitutto alla domanda di che ne sarebbe di quei cittadini - tanti vista la morfologia del nostro Paese, la desertificazione dei servizi nelle aree interne, il fatto che le Regioni abbiano collocato solo il 16% delle Case della comunità nelle aree classificate periferiche e ultra-periferiche - che non avranno vicina una Casa della comunità. Ricordiamo che ne è prevista una ogni 40-50.000 cittadini, mentre in questo momento già si è in sofferenza quando i medici di medicina generale superano il massimale dei 1.500 assistiti. Detto in altre parole, l’obiettivo di un cambiamento di questo tipo, con le risorse da mettere in campo per attuarlo e i professionisti da avere già a disposizione, non può essere spostare i medici di medicina generale, attuali e futuri, nelle Case della comunità, ma semmai aggiungerne di altri e distribuirli omogeneamente nei territori; altrimenti, altro che disponibilità per il cittadino.
Si badi bene che questa non è una domanda che ci si può porre alla fine del percorso, una volta deciso della contrattualistica e quindi degli interessi, legittimi ma particolari, di ciascuno, istituzioni e professionisti. Se il cambiamento vuol essere tagliato sugli interesse dei cittadini, vale a dire sull’interesse generale, dovrebbe essere posta e risolta per prima: con lo sguardo che parte dai margini del Paese e non sempre dagli spazi urbani o semi-urbani su cui anche opinion leader e media si esercitano a ragionare.
Una seconda domanda a cui bisognerebbe rispondere è come fare a garantire condizioni di uguaglianza a cittadine e cittadini che vivono in aree caratterizzate da condizioni di totale difformità: si parla delle Case della comunità come se già esistessero ovunque e non fossero ancora troppo spesso dei progetti sulla carta. È chiaro che i Presidenti di alcune Regioni possano ipotizzare un passaggio di questo tipo molto più a cuor leggero di quanto possano fare i Presidenti di altre. Ma il risultato di un cambiamento che non tenesse conto delle condizioni di partenza e non fosse capace, all’interno di priorità e orientamenti condivisi, di immaginare modelli differenziati rinfocolerebbe l’usuale distanza fra aree geografiche e continuerebbe ad allargare il gap fra Nord e Sud. Su questi aspetti la voce dei Presidenti delle Regioni meridionali del Paese dovrebbe emergere con maggior chiarezza, esigendo che le riforme della sanità pubblica avvengano assumendo come punto di partenza la fragilità di molte Regioni, piuttosto che l’eccellenza, seppure relativa, di alcune.
Ciò che si è detto finora sembrerebbe portare a concludere che il modello attuale sia da preservare tout court. Così ovviamente non è perché, indipendentemente dai tantissimi casi di medici (sempre più donne) di medicina generale presenti e competenti, è il meccanismo della presa in carico, anzi dell-e pres-e in carico, che è a rischio di saltare: per la diminuzione del tempo di cura, che nelle segnalazioni ricevute da Cittadinanzattiva è al primo posto nelle richieste dei cittadini, i quali desidererebbero una maggiore disponibilità del loro medico di medicina generale; per il carico burocratico che pesa su di lui, troppo spesso finalizzato al controllo della spesa piuttosto che alla misurazione degli esiti di salute; infine, ma non per ultimo, per l’essere la sanità, anche nell’ambito della medicina generale, focalizzata sulla prescrizione di prestazioni, piuttosto che sull’attenzione alla persona nella sua interezza, tanto più necessaria quanto più avremo persone sempre più anziane e sole. Su questo dovrebbero riaggiornarsi completamente percorsi formativi, pratiche professionali, modelli organizzativi, e anche atteggiamenti culturali di operatori e cittadini. D’altra parte, andrebbe recuperato il riconoscimento sociale di una categoria sempre più spesso etichettata come di fannulloni ben pagati – il che però confligge col fatto che pochi vogliano fare il medico di medicina generale, come l’anestesista o il medico dell’emergenza-urgenza, mentre molti scelgano di fare i dermatologi, i cardiologi o i chirurghi plastici.
È possibile allora un ripensamento profondo e sostanziale che, pur guardando alle Case della comunità come punto di arrivo dell’assistenza sanitaria territoriale, non si affanni a distruggere quello che c’è, semmai anzi lo potenzi ponendo regole più stringenti per misurarne l’efficacia e i risultati sulla salute delle persone? E semmai rimodulando su questi risultati i meccanismi di remunerazione, piuttosto che sulla mera quota capitaria? È possibile pensare che, in attesa delle Case della comunità, si lavori, istituzioni e professionisti, per definire standard per i medici di medicina generale e criteri di valutazione del loro operato, ma anche per facilitarne i compiti e l’offerta qualificata di servizi, immaginando percorsi di formazione e crescita aggiornati e favorendone l’iniziativa? È possibile incentivare e sostenere i medici che decidono di lavorare in zone rurali, semmai in forma aggregata o in rete con le innovazioni territoriali a cui pure si sta lavorando come, a mero titolo esemplificativo, le Botteghe della comunità a Salerno? E sostenerli, come si è fatto con i progetti attivati dalle farmacie rurali nell’ambito del Pnrr? Poi, appena pronte o laddove pronte le Case della comunità, tutto potrebbe tenersi in rete attraverso la famosa rivoluzione digitale, che nel 2025 non può più essere una parola magica usata per alimentare convegni.
Un’ultima considerazione: è l’epoca delle piccole riforme o delle trasformazioni radicali? La risposta è semplice, quanto complesso il mondo in cui ci si trova a operare: è l’epoca delle riforme radicali, a partire dall’esercizio della concorrenza fra Regioni e Stato centrale, che la Costituzione disegna come cooperazione virtuosa non certo come competizione e ostracismo. È tempo di riforme progressive ma ficcanti, di impegni chiesti ma assunti, di risorse da esigere per raggiungere risultati che si è disposti a misurare. È tempo di evitare gli atteggiamenti difensivi e autoreferenziali, e anche le etichette con cui ciascuno rischia di marchiare gli altri, a cominciare dai cittadini descritti o come povere vittime o come aggressori brutali, per mettere in campo non soltanto il potere che ciascuno è in grado di esercitare per cambiare le cose ma anche la responsabilità di voler essere un pezzo di cambiamento. Questa sarebbe la vera rivoluzione. Quello che invece accade ogni volta che proposte apparentemente rivoluzionarie vengono messe sul tavolo è che in breve volgere di tempo finiscano sotto il tavolo, e non tanto per mancanza di volontà quanto perché non è più vero che basta una legge per cambiare le cose. Come a nessuno, in un tempo così delicato, può essere permesso di non rimettersi in discussione.
E così di tanto in tanto si alzano dei gran polveroni, i giornali fanno un racconto solo di luci o solo di ombre. Poi la polvere si sedimenta. Ma se il confronto non diventa serio, e le soluzioni praticabili, troppa polvere rischia di seppellire anche tutto il buono che c’è nel nostro Servizio sanitario. Cittadine e cittadini di questo Paese questo non se lo possono permettere.
Anna Lisa Mandorino